Stanislaw Lem - Cyberiade
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- Название:Cyberiade
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- Издательство:Marcos y Marcos
- Жанр:
- Год:2003
- Город:Milano
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Infatti accadde che Trurl, il Favoloso Costruttore, mentre volava nei pressi, venne abbagliato da una cometa con la coda particolarmente splendente. Si allontanò subito dalla sua traiettoria, gettando freneticamente dall’oblò, come zavorra, tutto quello che gli capitava sotto mano; pezzi degli scacchi — del tipo cavo, che lui aveva riempito di liquore per il viaggio — certi fusti metallici usati dagli Ubidubbi di Clorelai per costringere gli avversari a capitolare, una manciata di utensili assortiti e una vecchia brocca di terracotta, con una crepa in mezzo e il manico staccato.
La brocca, accelerando in accordo con le leggi di gravità e sottoposta all’attrazione della coda della cometa, si schiantò sul fianco di una montagna sovrastante la discarica, ricadde, rotolò lungo una montagnola di rottami verso una pozzanghera, scivolò su un breve tratto di fango e alla fine urtò contro un vecchio barattolo di lamiera; l’urto piegò il metallo attorno a un filo di rame, e nello stesso tempo serrò tra la lamiera e il filo qualche pezzetto di mica: così si generò un condensatore, mentre il filo, piegato dal barattolo, costituì l’inizio di un’induttanza.
Una pietra, colpita dalla brocca, spostò a sua volta un pezzo di ferro arrugginito, che per caso era una calamita, e questo diede origine a una corrente, e la corrente passò per sedici altre lattine e pezzetti di filo, liberando un certo numero di solfuri e di cloruri, i cui atomi si legarono ad altri atomi, e le molecole che si formarono si collegarono ad altre molecole, finché, nel centro della discarica, non venne a crearsi un circuito logico, seguito da altri cinque, e da altri diciotto ancora, nel punto in cui la brocca finì per fermarsi.
Quella sera, qualcosa emerse dai margini della discarica, non lontano dalla pozzanghera che ormai si era asciugata, e questo «qualcosa», una creatura puramente accidentale, era Mymosh il Figlio di Se Stesso, che non aveva né madre né padre, ma era nato da sé, perché suo padre era la coincidenza, sua madre l’entropia.
Mymosh si sollevò dalla discarica, del tutto indifferente al fatto che la probabilità della sua esistenza era meno di una su cento miliardi di ziliardi elevati alla zilionesima potenza, e fece un passo, e poi ne fece altri, fino a raggiungere la pozzanghera più vicina, che non si era ancora prosciugata, cosicché, inginocchiatosi davanti a essa, poté facilmente specchiarvisi.
E scorse, sulla superficie dell’acqua, la sua testa dalla forma puramente accidentale, con orecchie simili a palline, e la destra alquanto più piccola dell’altra, e vide il suo corpo dalla forma puramente accidentale, un pot-pourri di lattine, viti e rottami, con il petto a barile — dato che il suo petto era effettivamente un barile — anche se un po’ più stretto nel centro, come per segnargli la vita, perché nell’uscire dai rifiuti era stato colpito da una pietra che glielo aveva schiacciato, e rimirò le sue membra rugginose, e le contò, e come volle la sorte c’erano due gambe e due braccia, e — accidentalmente — anche due occhi, e Mymosh il Figlio di Se Stesso si compiacque grandemente della propria persona, e sospirò con ammirazione per la vita sottile, per la disposizione simmetrica degli arti e per la rotondità della testa e fu portato a esclamare: «Davvero sono bellissimo, anzi, perfetto, e questo non fa che testimoniare la Perfezione di Tutto il Creato! E come deve essere buono Colui che mi ha fatto!»
Continuò a camminare, lasciando dietro di sé una scia di viti (giacché nessuno le aveva serrate come si deve) e cantando inni in lode della Sempiterna Armonia della Provvidenza, ma al settimo passo incespicò e cadde a faccia in giù nei rifiuti, e da quel momento in poi non fece altro che arrugginire, corrodersi e lentamente disintegrarsi per i successivi trecento e quattordici mila anni, perché aveva battuto la testa ed era entrato in corto circuito e non esisteva più.
Alla fine di quel periodo, però, avvenne che un certo mercante, il quale portava un carico di anemoni di mare del pianeta Medulsa agli stomatopodi di Trycia, litigò con il suo aiutante, mentre passavano accanto al sole color lillà, prese una scarpa e la scagliò contro di lui, e la scarpa sfondò l’oblò e uscì nello spazio, dove la sua traiettoria susseguente subì una perturbazione, a causa del fatto che la stessa cometa che in un’epoca lontanissima aveva abbagliato Trurl ora tornava a passare nello stesso punto, e così la scarpa, roteando lentamente su se stessa, venne deviata verso la luna, fu un po’ strinata dall’attrito con l’atmosfera, urtò il fianco della montagna, al di sopra della discarica, rimbalzò a quota più bassa e assestò un sonoro calcione a Mymosh il Figlio di Se Stesso, proprio con la giusta forza e proprio nella giusta direzione per creare esattamente la torsione, la coppia, la forza centrifuga e la quantità angolare di moto occorrenti per riattivare il cervello accidentale di quella creatura accidentale.
Andò così: Mymosh, colpito, finì nella pozzanghera più vicina, dove i suoi cloruri e i suoi ioduri si mescolarono con l’acqua, l’elettrolito filtrò nel suo cranio e, gorgogliando, vi creò una corrente, che continuò a circolare per tutta la sua testa, tanto che Mymosh si rizzò a sedere sul fango e fece mentalmente questa considerazione: «Penso, dunque (a quanto pare) sono!»
Ciò, tuttavia, fu la sola cosa che poté pensare nei seguenti sedici secoli, e la pioggia batté su di lui, e la grandine lo bombardò, e per tutto questo tempo la sua entropia aumentò e crebbe. Ma dopo esattamente mille e cinquecento e venti anni, un certo uccello, che volava al di sopra della discarica, attaccato da un predatore che si era lanciato su di lui in picchiata, si svuotò il soverchio gravame del ventre — un po’ per paura e un po’ per aumentare la velocità — e le deiezioni piombarono in centro alla fronte di Mymosh, che riportato in esistenza da questo urto, starnutì e disse: «Certo, sono! E non è il caso di aggiungervi un ’a quanto pare’! Eppure, il problema sussiste: chi è, a dire che io sono? Ovvero, in altre parole, chi sono io? Ora, come si può trovare risposta a questa domanda? Ah! Se soltanto esistesse qualcosa al di fuori di me, una cosa di qualsiasi genere, che mi servisse da pietra di paragone! Allora potrei dire di avere già vinto metà della mia battaglia. Ma, ahimè, non c’è niente, perché — come posso chiaramente vedere — non vedo niente! Perciò, l’unica cosa che esiste sono io, e io sono tutto quello che c’è e che può esserci, perché posso pensare in ogni modo da me desiderato. Ma che cosa sono io, dunque? Solo uno spazio vuoto per i pensieri, e niente di più?»
In effetti non possedeva più alcun organo di senso, perché erano arrugginiti e si erano ridotti in polvere nel corso dei secoli e dei millenni, dato che l’Entropia, moglie del Caos, è un’amante crudele e implacabile.
Di conseguenza Mymosh non poteva vedere la pozzanghera che era sua madre né il fango che era suo padre, e neppure il vasto, ampio mondo né il cielo che tutto sovrasta, e non aveva alcun ricordo di quel che gli era successo in precedenza, e in generale non era in grado di fare altro che pensare. Poteva fare soltanto quello, e perciò vi si dedicò con convinzione.
«Per prima cosa» disse a se stesso «devo riempire il vuoto che c’è in me, e così allontanare questa insopportabile monotonia. Perciò, pensiamo a qualcosa, perché, quando pensiamo — oh, meraviglia! — il pensiero esiste, e nient’altro che il nostro pensiero ha esistenza».
Da questa affermazione si può notare come fosse già divenuto alquanto presuntuoso, perché si riferiva a se stesso con la prima persona plurale.
«Ma, aspetta» si disse poi «non potrebbe esistere qualcosa anche al di fuori di me? Dobbiamo prenderne in considerazione la possibilità, anche solo per un momento, e anche se è una considerazione che suona assurda e addirittura offensiva e folle. Chiamiamo, ipoteticamente, questa esteriorità il Gozmos. Se dunque esistesse un Gozmos, io dovrei essere una sua parte ed esservi contenuto».
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