Stanislaw Lem - Cyberiade
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- Название:Cyberiade
- Автор:
- Издательство:Marcos y Marcos
- Жанр:
- Год:2003
- Город:Milano
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Ciascun Ninnicano — anzi, Giubilatore — abitava in un palazzo costruito per lui dai suoi autonomatici (così chiamavano i loro schiavi triboluminescenti), veniva unto di essenze profumate, coperto di catene ingemmate, elettricamente massaggiato, impeccabilmente abbigliato, impomatato, pettinato, d’incenso fumigato, di tesori inondato, e rallegrato da piaceri, marmoree sale, squilli di tromba, balli… e nonostante tutto questo, era stranamente insoddisfatto e depresso.
Eppure, avevano tutto quel che si potrebbe desiderare! Su quel pianeta, nessuno aveva mai bisogno di alzare un dito: invece di fare una passeggiata, di bere una sorsata, di farsi una dormita o di intrattenersi con la compagna della propria vita, c’era un passeggiatore che ti faceva passeggiare, un dormitore che ti faceva sognare, un coniugatore che ti faceva accoppiare, e così via, ed era perfino impossibile tirare il fiato per un momento, perché c’era un apparecchio anche per quello.
Così, servito e sostituito da macchine in ogni modo immaginabile, ornato e lucidato da appositi Decoratori e Auto-Colf da cinque a quindici volte al minuto, coperto di un argenteo, fremente sciame di meccanicoli e di macchinetterie appositamente prodotte per rallegrarlo, cullarlo, sussurrargli all’orecchio delicate sciocchezzuole, massaggiargli la schiena, solleticarlo sotto il mento, mettersi sotto i suoi piedi per dargli l’impressione di essere un trionfatore, e continuare a baciare senza sosta tutto quel che porgeva da essere baciato… così il normale Giubilatore (o Hedophago o Ninnicano) traeva nell’ozio i suoi giorni, solo, mentre in lontananza, lungo tutto l’orizzonte, lavoravano le grandi Manufabbriche, che sfornavano in continuazione troni dorati, collane ornate di gemme, pantofoline di perle, manti d’ermellino, scettri, spalline da uniformi di gala, clavicembali e spinette, carrozze e un milione di manufatti e gratifatti destinati a procurare piacere.
Mentre camminavi lungo la strada, dovevi continuamente allontanare macchine senza padrone che ti offrivano i loro servigi; per cacciar via le più sfacciate occorreva colpirle sulla testa, tanta era la loro ansia di essere utili. Alla fine, per allontanarmi dalla loro folla, mi rifugiai tra i monti… e vidi una legione di macchinette dorate brulicare davanti all’imboccatura di una caverna, sbarrata da un muretto di pietra, e attraverso una fessura scorsi gli occhi accesi di un Ninnicano, che evidentemente tentava un’ultima resistenza contro la Felicità Universale.
Nel vedermi, le macchine cominciarono immediatamente ad accalcarsi attorno a me, a raccontarmi favole, a massaggiarmi e a baciarmi le mani, a promettermi un regno, ma per fortuna venni salvato dall’occupante della caverna, che spostò una pietra e mi lasciò entrare.
Era semi-arrugginito, ma lieto della sua condizione di povertà, e mi disse di essere l’ultimo filosofo di Ninnica. Naturalmente, non aveva bisogno di spiegarmi che l’abbondanza, quando era eccessiva, era peggio della privazione, perché — ovviamente — che cosa restava da fare, a una persona, quando poteva avere tutto quello che voleva? E una mente assediata da un mare di paradisi, confusa da una pletora di possibilità, costantemente in un blando stupore causato dalla soddisfazione immediata di ogni capriccio… Come poteva prendere una qualsiasi decisione?
Conversai con quel saggio individuo, che si chiamava Trizivio Hunco, ed egli concluse che se la gente non fosse stata salvata dall’invadenza di quelle macchine e se non fosse comparso qualche Complicatore-Imperfezionatore Ontologico, la fine sarebbe stata inevitabile.
Trizivio — evidentemente colpito dalla monotonia delle vite dei suoi compatrioti — considerava da qualche tempo la Complicazione come la massima soluzione esistenziale; io, però; gli mostrai l’errore della sua posizione, perché il suo sistema per riottenerla si basava semplicemente sull’eliminazione delle macchine a opera di altre macchine, in particolare rosicchieri, mazzatori, tentenaghe, frangigriglia, trincialastra e foratutto. Questo, ovviamente, sarebbe servito unicamente a peggiorare le cose: invece di complicare la realtà, avrebbe sortito l’effetto opposto. Come tutti sanno, la Storia è irreversibile, ed è impossibile ritornare al passato aureo, tranne che nei sogni e nelle fantasticherie.
Così, scelse l’Imperfezione come obiettivo a cui tendere, nella convinzione che essa finisse inevitabilmente per ridare la Complicazione alle vite dei poveri abitanti dei pianeti, oggi instradate in una sola direzione: quella del piacere. E quando decise di passare all’azione, insieme attraversammo la pianura disabitata, immersi fino al ginocchio in dobloni e ducati d’oro prodotti — nel tentativo di rendersi utili — dalle macchine disoccupate.
Dovevamo continuamente ricorrere al bastone per allontanare gli sciami di pestilenziali meccanismi beatificatori, e presto cominciammo a vedere una grande quantità di Ninnicani-Giubilatori sdraiati a terra: erano fuggiti dalle loro case per trovare pace nel deserto, ma erano stati raggiunti dalle macchine e ora gemevano piano, privi di sensi, sazi, soddisfatti, sovrasaturi di piacere; la vista di una tale esagerazione, di un successo così spietato, avrebbe destato pietà in chiunque.
Poi incontrammo gli abitanti delle ville automatizzate — l’antica cintura residenziale, attorno alla città — che si gettavano assurdamente nel cybercatch e in altre elettro-eccentricità: alcuni mettevano una macchina contro l’altra, altri spaccavano suppellettili preziose, perché non potevano più sopportare lo sfoggio di lusso, altri facevano il tiro al bersaglio con smeraldi e diamanti, spezzavano con l’accetta orecchini e diademi, o cercavano di sfuggire alla felicità riparando in cantina o in soffitta, ordinavano alle macchine di colpirli a frustate, o tutte queste cose insieme (o una dopo l’altra). Ma nessuna di queste misure riusciva sia pur minimamente a intaccare la schiera dei macchinari edonistici; come ben sapevamo, quei Ninnicani erano destinati a morire fino all’ultimo, accuditi e assistiti fino alla tomba.
Io avevo sconsigliato a Trizivio la semplicistica soluzione di chiudere le Manufabbriche, perché avere troppo poco — l’eccesso di Imperfezione — è altrettanto pericoloso quanto avere troppo, ma lui (che, come i suoi compatrioti, optava istintivamente per le soluzioni radicali anziché per quelle moderate), invece di analizzare tutte le conseguenze ontologiche di una Complicazione eccessiva, cominciò immediatamente a far saltare in aria le fabbriche con la dinamite.
Fu un grave errore, perché in seguito provocò una grande povertà, anche se — a dire il vero — egli non arrivò mai a vederla. Infatti, durante il tragitto da una fabbrica all’altra, un branco di autosatiri piombò su di lui, approfittando di un suo momento di distrazione: Trizivio venne afferrato da linguiformi e libidinatori che lo trascinarono via con loro.
Portato in un «vezzeggiatorium», venne stordito da tentennatori, solleticato, carezzato e lucidato a pomice fino a fargli scordare quel che si era proposto di fare, e anche la sua forte fibra dovette cedere. Dopo un ultimo grido di «Allo stupro!» giacque senza vita nel deserto, in mezzo alle monete d’oro, con la copertura metallica ormai totalmente consumata dagli assalti della passione meccanica.
«E questa, Vostra Altezza, fu la fine di una persona che era molto saggia, ma che sarebbe potuta esserlo ancora di più!» concluse Trurl; poi, vedendo che non era riuscito a convincere Re Tirapollici, aggiunse: «Che cosa desidera, in realtà, Vostra Altezza?»
«O Costruttore!» rispose Tirapollici. «Tu dici che le tue storie hanno lo scopo di migliorare la mente, ma io non trovo che sia così. Sono divertenti, però, e desidero che tu me ne racconti altre, e che non ti fermi mai».
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