Stanislaw Lem - Cyberiade
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- Название:Cyberiade
- Автор:
- Издательство:Marcos y Marcos
- Жанр:
- Год:2003
- Город:Milano
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Nuovamente ne contai cinque, quando scesero, ma risalirono solo in quattro. Compresi che per risolvere il mistero dovevo recarmi laggiù: così, mi armai di pistola laser e, allo spuntar dell’alba, scesi in cantina, dove trovai soltanto qualche pezzo di metallo bruciacchiato e rotto; mi nascosi dietro un mucchio di paglia, mi sedetti nell’angolo più buio e aspettai che arrivassero i misteriosi personaggi.
E infatti, verso mezzogiorno, cominciai a sentire le grida e i colpi di martello, ormai familiari, poi, tutt’a un tratto, la porta si aprì e fecero il loro ingresso quattro persone, che ne trascinavano una quinta legata mani e piedi.
Quest’ultimo indossava un giustacuore di foggia antica, rosso vivo e con il collo di pizzo, e un berretto con la piuma; aveva la faccia tonda e il naso enorme, storceva la bocca per la paura e continuava a farfugliare parole incomprensibili.
I Legariani sbarrarono la porta e cominciarono a picchiarlo selvaggiamente, gridando, uno dopo l’altro: «Questo è per la Profezia della Felicità! E questo per la Perfezione dell’Essere! Beccati questo per il Letto di Rose, e questo per il Cesto di Ciliegie, per il Quadrifoglio dell’Esistenza! E questo per l’Elevazione dello Spirito!»
E lo colpivano con pugni e bastoni, con una tale forza che gli avrebbero certamente fatto rendere l’anima, se non avessi annunciato la mia presenza uscendo dalla paglia e puntando la pistola.
Quando ebbero lasciato libera la vittima, chiesi al quartetto perché punissero in quel modo un individuo che non pareva né un fuorilegge né un inutile vagabondo, almeno a giudicare dalla foggia e dal colore del suo vestito, che erano quelli di uno studioso.
I Legariani dondolarono prima su una gamba e poi sull’altra, lanciarono occhiate piene di desiderio alle loro armi, rimaste accanto alla porta, ma quando accesi la luce d’innesco e aggrottai la fronte, cambiarono idea e, scambiandosi qualche occhiata tra loro, chiesero al più grosso di tutti, quello con il vocione di basso, di parlare per loro. «Sappi, o straniero sconosciuto» disse quegli, girandosi verso di me «che non parli a comuni imbroglioni, delinquenti o banditi, o ad altre degenerazioni della specie dei robot, perché, anche se una cantina non parrebbe il luogo più adatto, quel che facciamo è l’opera più meritoria che si possa immaginare ed è anzi — non esito a dire — qualcosa di bello e santo!»
«Meritorio e santo?» esclamai. «Che cosa mi vai raccontando, o vile Legariano? Non ho visto con i miei occhi come vi siete lanciati sul vostro compagno dal farsetto rosso? E che gli avete assestato tali colpi che dalle vostre stesse articolazioni schizzava via l’olio? Osi chiamarla una cosa bella?»
«Se la Vostra Stimatissima Forestierezza continuerà a interrompere» rispose il Legariano dalla voce di basso «non verrà a sapere nulla, e perciò la invito cortesemente a tirare le redini della sua degnissima lingua e a domare l’irrequietezza del suo cavo orale, oppure dovrò trattenermi dal parlare.
«Sappia che davanti a sé ha i migliori fisici — cybernisti ed elettristici del primo ordine — miei allievi, brillanti e vigili, le migliori menti di Legaria, e io sono Vendetius Ultor d’Amentia, professore emerito di materie positive e negative ed enunciatore del Reincarnazionismo Onnigenerico, e ho dedicato la mia vita alla sacra opera della vendetta.
«Con l’aiuto di questi miei fedeli seguaci io ora vendico la vergogna e le sofferenze della mia gente su quell’escrescenza rossa e purulenta inginocchiata davanti a noi, un vile insetto chiamato — e che sia sempre maledetto il suo nome — Malapustio ovvero Malapusticus Pandemonius, che con l’inganno e la fellonia, con il furto e l’irreparabilità, ha portato l’infelicità fra i Legariani! Infatti, è stato lui a spingerli ad agire a loro detrimento e ad altre diavolerie, li ha scomposticcherati, rimbambineggiati e del tutto stramminchionati… poi si è surrettiziamente rifugiato nella tomba per evitare la punizione, convinto che nessun male potesse più raggiungerlo!»
«Non è vero, Vostra Sublime Visitatorietà! Non ho mai inteso… voglio dire, non avevo idea!…» gemette il nasuto facciatonda, dall’abbigliamento rubro, inginocchiato davanti a me. Io lo fissai, senza capire, mentre il basso intonava: «Gargomanticus, caro figliolo, scalcia il piagnone nelle troppo soffici terga!»
Il figliolo obbedì, con una tale velocità da far echeggiare la cantina. Mi affrettai a dire: «Fino al termine delle spiegazioni, calci e percosse sono assolutamente proibiti per l’autorità conferitami da questa pistola. Intanto, a lei la parola, professor Ultor, è pregato di continuare».
Il professore brontolò tra sé, fece per protestare, e infine disse: «Perché lei sappia come s’è verificata la nostra grande disgrazia e perché noi quattro, rinunciando alle cose del mondo, abbiamo fondato il Santo Ordine della Forgia della Resurrezione, consacrando il resto della nostra vita alla dolce vendetta, le riferirò la storia della nostra specie a partire dall’inizio della creazione…»
«E’ proprio necessario andare così indietro?» chiesi io, perché temevo che la mia mano s’indebolisse sotto il peso della pistola.
«Sì, Vostra Stranierezza! Ascolti… Ci sono leggende, come certo saprà, che parlano della razza dei visipallidi, i quali avrebbero creato in una provetta il genere dei robot, anche se — come sa chiunque abbia un po’ di buon senso — si tratta di una sciocca bugia.
«Infatti, all’inizio, non c’era che il Buio Informe, e nel Buio la Magneticità, che trascinava gli atomi di giro in giro. E un atomo, nel suo roteare, ne colpì un altro, e così nacque la Corrente, e la Prima Luce… la quale accese le stelle.
«Poi i pianeti si raffreddarono e nei loro nuclei l’afflato della Sacra Statistica diede origine ai Protomeccanoi, dai quali sorsero i Proteromeccanidi, che lasciarono posto ai Meccanismi Primitivi.
«Questi non sapevano ancora calcolare, faticavano a fare due più due, ma grazie all’Evoluzione e alla Sottrazione Naturale presto si moltiplicarono e generarono gli Omeostati, che generarono i Servostati — l’Anello Mancante — e da essi venne il nostro progenitore, l’«automatus sapiens».
«Dopo di lui vennero i robot delle caverne, i robot cacciatori-raccoglitori, e infine gli imperi robotici. L’elettricità per le loro necessità vitali, i Robot Antichi dovevano fabbricarsela a mano, per strofinìo, e questo era un lavoro vile, una fatica che ottundeva l’intelligenza. Ogni signore feudale aveva moltissimi cavalieri, e ogni cavaliere molti vassalli: anche lo strofinìo era feudale, ossia gerarchico, e andava dai più bassi ai più alti in grado.
«Questo lavoro manuale venne sostituito dalla macchina quando Ylem Symphiliac inventò lo strofinatore elettrostatico e Wolfram di Coulomb il parafulmine senza strofinìo.
«Così ebbe inizio l’Era della Batteria, epoca molto difficile per chi non possedesse un proprio accumulatore, dato che in una giornata serena, senza alcuna nube a cui attingere, dovevano sparagnare ogni frazione di watt e tenersela cara, e strofinarsi in continuazione per non perdere del tutto la carica.
«A quel punto comparve uno studioso, un infernale intellettricista e, come se non bastasse, esperto di efficienza, al quale, da bambino — senza dubbio per qualche intervento diabolico — nessuno aveva mai rincalcato la testa, e cominciò a insegnare che il tradizionale metodo di collegamento elettrico — ossia in parallelo — non aveva alcun valore, e che tutti avrebbero dovuto collegarsi come previsto dal nuovo, rivoluzionario piano da lui escogitato, ossia in serie.
«In serie, infatti, quando il primo della fila strofina, gli altri vengono immediatamente riforniti di corrente, anche a grande distanza, finché ogni robot ribolle letteralmente di volt.
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