AAVV - Vicent Ferrer. Projecció europea d'un sant valencià
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Altri ben più noti autori caratterizzano la cultura e la spiritualità tipicamente domenicana di Ferrer. Se la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino è, dopo la Scrittura, il riferimento più importante, la «colonna vertebrale» del suo pensiero (Robles Sierra in Ferrer 1995: 23) - e si potrebbero aggiungere non pochi rimandi al commento sulle Sententiae di Pietro Lombardo e alla Catena aurea (Catalán Casanova, 2013: 358) - è fuor di dubbio che la Legenda aurea di Iacopo da Varazze e le Vitae Patrum sono fonte e stimolo grande per digressioni narrative e per rappresentazioni drammatiche. La frequenza di exempla derivati dai detti e dalle storie dei Padri del deserto non meraviglia, se si pensa che proprio le Vitae Patrum e le Collationes di Cassiano erano tra i libri che il maestro dei novizi, secondo le norme di Umberto di Romans, doveva raccomandare ai giovani (Tracy Brett, 1984: 140); e soprattutto se si riflette che la rigorosa spiritualità del deserto faceva parte dell’identità domenicana (Delcorno, 2016a: 36-37). È difficile stabilire se Ferrer si limitasse alla consultazione delle summe exemplorum , che davano grande spazio agli aneddoti di quella raccolta monastica, o avesse sotto mano una copia delle Vitae Patrum , dalla quale ricavò anche episodi meno noti e comunque meno ripetuti dai predicatori. Lo si nota fin negli schemi del sermonario di Perugia (Martinez Romero, 2002: 97 nota 102) e in analoghe raccolte copiate in alcuni codici della Biblioteca Vaticana. In una di esse (Vat. Lat. 7730, f. 21r) si legge un piano di sermone per il Natale, fondato su un versetto di Luca (2, 34b): Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Israel et in signum cui contradicetur . Le riflessioni del predicatore si concentrano sul termine «signa», sui tre segnali che indicano la via per tornare al Paradiso: castità, povertà e umiltà, evidenti nella nascita di Cristo nel presepe di Betlemme. Tuttavia la superbia ha sottratto questi segnali sicché l’umanità non ha più direzione: «Signa Christi iam sunt ablata quasi de via, ideo difficiliter itur ad paradisum». Alla fine del breve schema si legge un appunto: «Nota hic de beato Machario cuius signa arundinea demon abstulit de via». È uno dei racconti più straordinari del Paradisus Heraclidis , una delle raccolte confluite nelle Vitae Patrum : Macario Alessandrino si inoltra nel deserto per visitare il giardino dove sono sepolti due mitici maghi del faraone (Iannes e Mambres), e per non smarrirsi nelle solitudini del deserto pianta una cannuccia ogni mille passi; senonché il demonio le raccoglie e, mentre il monaco riposa, le depone vicino al suo capo, quasi a insegnargli che la via si trova non con il proprio ingegno ma con l’aiuto divino (Palladio, 2013: 538-541, §§ 6-12; Delcorno, 2009: 754-756 e 1572). Troppo breve è il testo per decidere se Ferrer leggesse l’aneddoto nell’originale latino o nel capitolo De sancto Machario della Legenda aurea (Iacopo da Varazze, 1998: 151) 17. Le Vitae Patrum sono citate con enfasi alla fine di un sermone sull’aldilà, fondato sul thema Factum est gaudium magnum in illa civitate (Act. 8, 9), dove si introduce come exemplum conclusivo «hum miracle que legim in Vitis Patrum , autèntich per decret de papa Gelasi» (Ferrer, 1971-1998: I 194, sermone XVI). Si tratta del notissimo incontro di Macario il Grande con il teschio di un sacerdote pagano narrato dai Verba seniorum (III, 16: PL LXXIII, col. 1013), racconto che Ferrer peraltro rielabora profondamente non senza la mediazione del già citato capitolo della Legenda aurea (cfr. Toldrà i Vilardell, 2010: 229). Come nella versione di Iacopo da Varazze si tralascia il particolare della «virga palmae» con la quale l’eremita tocca i resti del pagano ridonandogli la parola, e nulla si dice della diminuzione delle pene ottenuta per i dannati dalle preghiere di Macario, affermazione eterodossa e imbarazzante; 18invece la bipartizione tra i pagani, che occupano la parte superiore dell’inferno e i cattivi cristiani confinati nella zona più bassa, è modificata con l’aggiunta di un terzo gruppo, quello degli ebrei che occupano uno spazio intermedio. Inoltre Ferrer dilata la scena con particolari nuovi e con uno straordinario registro dialogico. Il protagonista è anonimo, è «hun hermità, fort de bona vida»; imbattendosi nel teschio di uno sconosciuto si domanda dove sarà la sua anima; «Si és en infern, volria saber per què; e si és en purgatori, oo! Com pregaria a Déu per ella! E si és en paraís yo la me’n portaria a la mia cel. la e tendria-la per relíquia», e Dio soddisfa questo pio desiderio concedendo la parola al defunto. Il testo latino procede con battute di dialogo ampie ed elaborate, sostituite invece da Ferrer con uno scoppiettante rapidissimo scambio: «‘Digues, és hom o dona?’ Respòs: ‘Hom só’. ‘Es christià?’. ‘No pas, mas pagà’. ‘E on estàs?’. ‘Yo só dapnat en infern’. ‘Mal te va?’. ‘Hoc’». Alla fine, ottenute tutte le informazioni sull’aldilà, l’eremita chiede se può aiutare in qualche modo l’interlocutore; cosa impossibile - non gli gioverebbero tutte le messe del mondo; sicché l’incontro si conclude non con la pia sepoltura del teschio, come nell’originale latino, ma quasi brutalmente con un calcio: «‘Donchs, torna-te’n a ton loch’. E donà hun colp ab lo peu ala calavera» (ivi: 195).
Una parte notevole del Sermonario di Perugia, esattamente 62 delle 477 schede, sono dedicate al ciclo santorale. Alle varie forme della narrativa di Ferrer – esempi, «semblances», parabole, miracoli, scene della vita quotidiana – attentamente analizzate e distinte dagli studiosi, si aggiunge come tratto fondamentale della sua oratoria proprio il repertorio agiografico che utilizza un complesso sistema di fonti medievali, agiografiche e liturgiche, tra le quali si distingue la già citata Legenda aurea (cfr. Viera, 1988, 1991, 2001). L’ agiografia ha per Ferrer un valore poco meno inferiore a quello della Bibbia. L’arte del dialogo, il taglio spettacolare del racconto, l’attenzione ai particolari della realtà quotidiana rinnovano profondamente i vecchi disegni dell’agiografia, e in modi sempre nuovi, come documentano la molteplice performance di uno stesso modello di sermone. Se ne ha una prova eccezionale nel sermone per san Giorgio, disegnato negli snodi essenziali in un schedula perugina (Ferrer, 2002, num. 171) e ampliato e arricchito in una straordinaria serie di reportationes catalane e latine fino al sermone modello diffuso dalle stampe (Perarnau i Espelt, 1999b, num. 75).
Come è noto, alla figura del martire celebrato da numerosi scritti agiografici fin dal secolo V, si aggiunsero, fra XII e XIII secolo, i tratti del cavaliere che libera la principessa dalla minaccia del drago. Iacopo da Varazze, pur consapevole dei sospetti che gravano su questo dossier agiografico, raccoglie le notizie di diversa provenienza in uno dei più popolari racconti dell’agiografia medievale, fonte della predicazione, del teatro e dell’arte (Viera-Piqué, 1996: 275-285). Nonostante alcune discrepanze e manipolazioni, non vi è dubbio che il capitolo LVI della Legenda aurea (Iacopo da Varazze, 1998: 391-398) sia la fonte alla quale si riferisce Vicent Ferrer. Nella scarna traccia del Sermonario di Perugia, san Giorgio è un modello universale di santità, è il beatus vir menzionato nel versetto tematico: Beatus vir qui inventus est sine macula (Eccli 31, 8), la vittima senza macchia, senza vizi, quale è prescritta dal Levitico (22, 21), vittima che prefigura il sacrificio di Cristo «quia sacrificia veteris legis erant signa passionis Christi». Lo schema di sermone consiste appunto in una rassegna di virtù contrapposte ai sette vizi o peccati capitali: superbia, lussuria, avarizia, ira, gola, accidia e invidia; variazione del consueto ordine gregoriano dei vizi (SALIGIA), mediante lo spostamento di Lussuria al secondo posto 19. Nella predicazione effettiva Ferrer presenta san Giorgio come un modello di penitente, quasi di flagellante. Così nella predica recitata a València nella quaresima del 1413 (25 aprile) egli contrappone il suo zelo al vizio dell’accidia, sottolineando che in tempo di pace il santo «portava cilici e batia’s ab disciplines, e dormia en terra, e feia oració en la nit, e per lo matí oia sa missa, e cada dimenge confessava e combregava»(Ferrer, 1973: II, 193). La bellezza e la novità delle soluzioni narrative ideate da Ferrer risaltano singolarmente al confronto con i sermoni dedicati al santo cavaliere da non pochi predicatori domenicani. Basti ricordare che proprio Iacopo da Varazze nel primo dei cinque modelli per la festa di san Giorgio raccolti nel suo sermonario De sanctis , sul thema Induite vos armaturam Dei (Eph 6, 11) indugia sul senso allegorico della battaglia tra il drago e il cavaliere: il fiato pestifero rappresenta la tentazione, gli spruzzi d’acqua sollevati dal mostro emergente dal lago sono le cattive cogitazioni; la minuziosa descrizione dell’armatura si risolve ovviamente in un elenco di virtù e di buone disposizioni (cfr. Delcorno, 1989: 90-91). L’intento morale insomma appiattisce e soffoca la narrazione. Al contrario nel panegirico di València Ferrer adatta il breve schema del Sermonario perugino all’uditorio di una città che vanta di essere stata riacquistata dai cristiani col soccorso del santo cavaliere, e sembra assumere la forma di un sermone ad statum , rivolto in particolare ai cavalieri. Giunto, nel secondo membro del sermone, a trattare della castità di san Giorgio, contrapposta alla lussuria, il predicatore introduce, quasi come esemplificazione di quella virtù, «una singular cosa», un caso particolare, la leggenda della principessa offerta in pasto al mostro e salvata dal cavaliere (Ferrer, 1973: II, 190). Cadono gli antecedenti del racconto (i tentativi del re per salvare la figlia a prezzo d’oro, il congedo della figlia concluso dalla benedizione paterna). Il predicatore sembra adottare lo stile delle meditazioni, invitando gli uditori a ricostruire la scena, a immaginare: «Lo dimoni donà a entendre que la filla del rei havia d’esser oferida al drac, e lo rei pensau, pensau com estava!». Si aggiunge inoltre un particolare di grande effetto: i cittadini guardano dall’alto delle mura la principessa che si avvia alla morte; «e la gent, per terrats et per lo mur, mirant» 20. Si moltiplicano i dettagli per così dire militari: Giorgio per divina ispirazione sopraggiunge in riva al lago infestato dal drago con uno scudiero, allontanandosi dall’esercito; vede la donzella, scende da cavallo affidandolo allo scudiero. Invece del lungo dialogo che si legge nel testo latino di Iacopo da Varazze con la triplice esortazione alla fuga ripetuta dalla principessa («Velociter equum ascende», «Fuge velociter», «Fuge, bone domine, fuge velociter»), Ferrer introduce un unico scambio di battute, e mette in rilievo che il duello è tra «nostre senyor Déu Jesucrist»» e il demonio. La morte del drago è rappresentata in modo totalmente diverso; Il cavaliere monta a cavallo «e diu ‘Jesus!’, e ferilo» 21, un colpo mortale, mentre – si ricorderà - nella leggenda la principessa trascina in città il mostro ferito, legandolo con la sua cintura, e solo dopo la conversione e il battesimo dell’intera città, il cavaliere lo finisce. Rientra nella strategia retorica del predicatore l’insistenza sull’antitesi tra la castità del valoroso cavaliere e la condotta dei moderni cavalieri, che in quella situazione avrebbero detto: «venet-se ab mi, e jo seré lo drac que us devoraré»(Ferrer, 1973: II 191).
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