Così dicendo, cavò fuori da una sua borsa enorme un paio d’orecchini d’ambra, e consegnatili alla fanciulla, che dalla contentezza arrossì come una ciliegia, si volse a Piero.
— Eh, eh, caro, vien qua! – lo chiamò con voce melliflua. – Vien qua, dico.
E si tirava su le maniche in atto minaccioso.
Piero si avvicinò, guardandola con la sua solita ingenuità.
— Più vicino, più vicino! Io sola dissi la verità a tuo padre, e la dirò anche a te.
Tacquero tutti. Si capiva che quello era solo un esordio.
— Bravo ragazzo, non c’è che dire... Una vera perla! Il babbo sta più di là che di qua, e lui si spassa con gli orsi e i commissari. Vergògnati! Meglio sarebbe che andassi alla guerra!
Si voltò in là e prese a braccetto il conte, che a gran fatica si teneva dal ridere.
— Orsù, si va a tavola? Ci siamo, mi pare.
Con lei aprì il conte il corteo; venivano dopo la contessa e un colonnello degli ussari, personaggio importante, col quale Nicola dovea raggiungere il reggimento; la Drubezkoi con Scinscin; Berg con Vera; Giulia Caraghin con Nicola. Altre coppie seguivano, e in coda a tutti i ragazzi e le governanti. Tramestio di camerieri, strisciar di seggiole, e i convitati presero posto, mentre una piccola orchestra, dall’alto di un palco, dava negli strumenti. Un’altra musica seguì, soffocando la prima, quella dei coltelli e delle forchette, delle parole scambiate, dell’acciottolio dei piatti, dello scalpiccio dei domestici. Ad un capo della tavola sedeva la contessa, con a destra la terribile Achrosimow e a sinistra la Drubezkoi. All’altro capo, il conte tra il colonnello e Scinscin. Da un lato della lunga mensa i giovani più grandi: Vera a fianco di Berg, Piero accanto a Boris; dall’altro, i ragazzi e le governanti. Il conte, di dietro ai cristalli delle bottiglie e delle fruttiere, sbirciava alla moglie e alla sua alta acconciatura dai nastri azzurri, mentre mesceva largamente ai vicini, senza trascurar se stesso. La contessa, di dietro agli ananassi, non dimenticando i doveri di padrona di casa, lanciava occhiate significative al marito, la cui calvizie e la faccia le parevan più del solito spiccare in rosso fra i grigi capelli. Le signore bisbigliavano; fra gli uomini levavansi sempre più forti le voci, specie quella del colonnello, il quale tanto mangiava, beveva e rosseggiava, che il conte lo mostrava a modello agli altri convitati. Berg, con un tenero sorriso, andava dicendo a Vera che l’amore è un sentimento celeste. Boris indicava per nome al novello amico i commensali ed occhieggiava con Natalia che gli sedeva dì fronte. Piero parlava poco, osservava molto e lavorava di mascelle. A cominciare dalla minestra à la tortue fino alle pernici, non trascurò una sola pietanza, non lasciò passare una sola qualità di vino, che il cameriere, con avvolta la bottiglia in un tovagliolo, mescevagli di sopra le spalle, mormorando in tono misterioso: – Madera secco – Vino d’Ungheria – Vino del Reno. – Porgeva il primo dei quattro bicchieri che gli veniva sotto mano, lo vuotava con voluttà e guardava intorno con un sorriso sempre più beato e gioviale. Natalia fissava Boris, come una giovinetta tredicenne può guardare un ragazzo col quale or ora per la prima volta ha scambiato un bacio. Lo stesso sguardo volgeva tratto tratto a Piero, al quale veniva voglia di ridere senza saper perchè.
Nicola, lontano da Sofia, sedeva accanto a Giulia Caraghin, e con lei discorreva sorridendo. Anche Sofia si sforzava di sorridere: tormentata dalla gelosia, impallidiva, arrossiva, tendeva l’orecchio per cogliere qualche parola dei loro discorsi. La governante, in atto aggressivo, era pronta a respingere qual si fosse offesa recata ai ragazzi. Il precettore tedesco studiavasi di ricordare tutti i nomi delle vivande e dei vini, per farne una precisa descrizione nella sua prima lettera alla famiglia, e s’indispettiva in vedere che il cameriere con la bottiglia avvolta nel tovagliolo lo trascurava sempre. Corrugava la fronte, faceva le viste di non volerne di quel vino; ma non si faceva capace che nessuno volesse capire che il vino, se mai, egli lo avrebbe bevuto, non già per ingorda brama, ma per nobile curiosità scientifica.
Dal lato maschile, la conversazione animavasi sempre più. Il colonnello affermava di aver letto a Pietroburgo il testo della dichiarazione di guerra e visto coi propri occhi l’esemplare che un apposito corriere avrebbe oggi stesso consegnato al comandante in capo.
— Quest’altra ci mancava, – disse Scinscin, – che il diavolo ci tirasse pei capelli a cozzare con Bonaparte. L’Austria, pur troppo, ha già abbassato la cresta. Ho paura che non sia venuta la nostra volta. Ma perchè, domando io, perchè?
Il colonnello, un tedesco robusto e sanguigno, si arruffò come un istrice.
— Il perchè, egregio mio signore, – disse in tono perentorio, – non lo sappiamo nè io nè voi. Lo sa invece l’imperatore. L’imperatore dice nel suo manifesto che non può rimanere spettatore indifferente dei pericoli che minacciano la Russia; e dice inoltre che la sicurezza e la dignità dell’impero, la santità delle alleanze, non che il desiderio unico ed assiduo di ridare all’Europa una pace solida e duratura, lo hanno deciso a che parte del suo esercito passi la frontiera... Eccovi il vostro perchè, egregio signor mio, – conchiuse, tracannando un bicchier di vino e volgendosi al conte per trovare in lui un alleato.
— Voi sapete l’adagio, – rispose Scinscin con un ghigno agro-dolce; – chi sta ben, non si muova... E anche l’altro: al coperto non ci piove... È proprio il caso nostro. Lo stesso Suvorow, ed era lui, ne toccò di santa ragione. E dove li peschiamo oggi i Suvorow? eh, che vi pare?
— Mi pare che è nostro dovere batterci fino all’ultima stilla di sangue, – gridò il colonnello dando un pugno sulla tavola, – morire per il nostro imperatore, e ragionare quanto meno è possibile. Così pare a noi, così la pensiamo noi, vecchi soldati. Ecco tutto. E voi, giovanotto, che ne dite? sentiamo un po’, – soggiunse volgendosi a Nicola, il quale a sentir parlare di guerra, non badava più alla sua interlocutrice, e con tanto d’occhi sbarrati pendeva dalle labbra del colonnello.
— Son perfettamente d’accordo con voi, – rispose Nicola, facendosi di fuoco, e con le mani nervose ora girando il piatto ora spostando i bicchieri, come se veramente si trovasse di faccia a un tremendo pericolo; – i Russi, secondo me, debbono vincere o morire!
La frase era ampollosa e fuor di posto, e tutti lo sentirono, non escluso colui che l’avea pronunciata.
— Bello, magnifico! – esclamò Giulia che gli sedeva accanto. Sofia tremava tutta e s’era fatta rossa fino agli orecchi. Piero approvava, scotendo il capo.
— Stupendo! – disse poi.
— Avete parlato da vero ussaro, giovanotto! – gridò il colonnello, tornando a scaraventare un pugno sulla tavola.
— O che fracasso fate voi costì? – suonò la voce grossa della Achrosimow. – E che hai tu a picchiar sulla tavola? con chi te la pigli? credi forse di aver di fronte i Francesi?
— Io?... io dico la verità.
— Parlano della guerra, – venne su il conte. – Voi sapete che anche mio figlio parte per l’armata.
— Ed io ce n’ho quattro sotto le armi, e non fiato. Tutto è volontà di Dio. Anche a stare in letto si muore, e si può uscir sani e salvi da un fuoco di fila.
— Così è, così è, – si approvò da varie parti.
La discussione si chetò, e le singole conversazioni ripresero il loro corso.
— No, non lo domanderai, – disse a Natalia il fratellino, – scommetto che non lo domanderai.
— Sì, che lo domanderò! – rispose Natalia.
E con la faccia infocata, con una disperata e gioconda temerità, sorse in piedi, volse a Piero un’occhiata perchè stesse a sentire, e gridò per quanto n’aveva in gola:
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