— Qui, a Mosca, – rispose col suo tono tranquillo e un po’ beffardo, – ci si occupa di pranzi e di pettegolezzi più che di politica... Adesso, per la più corta, non si parla che di voi e del conte.
— Ah, ah! – fece Piero sorridendo bonariamente, come per impedire al suo interlocutore di dir qualche cosa di cui s’avesse poi a pentire. Ma Boris seguitò a parlare senza rigiri, con voce chiara e spiccata, sempre guardando Piero negli occhi.
— Se ne togliete i pettegolezzi, non c’è proprio altro da fare. Tutti ora son curiosi di vedere a chi lascerà il conte il suo patrimonio, benchè può anche darsi ch’egli sopravviva a tutti noi, il che gli desidero con tutto il cuore.
— Sicuro, sicuro, è una cosa ingrata, insopportabile...
Piero avea sempre paura che l’ufficiale si cacciasse in un discorso per lui stesso imbarazzante.
— E a voi certo deve sembrare, – riprese a dir Boris leggermente arrossendo, ma senza mutar voce e atteggiamento, – che tutti, dal primo all’ultimo, aspettino di ricevere qualche cosa da un uomo così ricco....
«Proprio così,» pensò Piero.
— Ed io ho da dirvi, per evitare ogni sorta di malintesi, che voi sbagliereste di grosso, mettendo mia madre e me nel numero di cotesta gente. Noi siamo molto poveri, ma appunto per questo, parlo almeno per conto mio personale, non mi credo suo parente, e nè io nè mia madre chiederemo o accetteremo checchessia da lui.
Piero stette un pezzo a capire; ma, capito che ebbe, balzò dal divano, afferrò Boris per mano, e assai più rosso di lui, prese a parlare con un misto di vergogna e di rabbia:
— Ma vi pare!... No, no... Forse che io o altri si è potuto pensare... No, no, io so benissimo...
Ma Boris tornò ad interromperlo.
— Son contento di aver detto chiaro quanto avevo nell’animo. Forse ciò vi dispiace; scusatemi; ma spero di non avervi offeso. È mio costume parlar franco... Ma che risposta dovrò portare? verrete al pranzo dei Rostow?
Cavatosi così da una posizione imbarazzante e messovi un altro invece, Boris tornò al suo fare simpatico e disinvolto.
— No, sentite, – disse Piero, calmandosi. – Voi siete un uomo maraviglioso. Quello che or ora avete detto è stupendo. Si sa, non mi conoscete, è tanto che non ci si vede... eravamo ragazzi... Voi forse supponete in me... Capisco, capisco. Per conto mio, non avrei avuto il coraggio di farlo... Stupendo, vi dico! Sono lietissimo di avervi conosciuto. Ma è proprio strano che m’abbiate creduto capace di... Via, via! Ci conosceremo meglio, non dubitate... Date qua la mano, così!... Ma sapete che il conte non l’ho visto nemmeno una volta? Non mi ha fatto chiamare. Pover’uomo!... ma non c’è rimedio...
— E voi credete, – domandò Boris sorridendo, – che Napoleone passerà il canale?
Piero capì che quegli volea mutar discorso, e si diè senz’altro a svolgere i vantaggi e i pericoli della spedizione di Boulogne.
Un cameriere venne a chiamar Boris dalla principessa, che stava per andar via. Piero promise di trovarsi al pranzo per avere occasione di far più intima conoscenza, gli strinse la mano, lo guardò con simpatia attraverso gli occhiali. Vistolo uscire, si rimise a passeggiar per la camera, ma senza più menar colpi di spada ad un nemico invisibile. Sorrideva di compiacenza, pensando a quel giovanotto simpatico, intelligente e di così saldo carattere.
Il principe Basilio riconduceva intanto la Drubezkoi.
— È terribile! è terribile! – esclamava la sensibile donna, asciugandosi le lagrime; – ma checchè mi costi, farò fino all’ultimo il mio dovere. Verrò a passar la notte. Non si può lasciarlo così. Ogni minuto è prezioso. Non capisco che cosa aspettino le nipoti... Forse Dio mi suggerirà un mezzo per prepararlo!... Addio, principe, che Dio vi dia forza...
— Addio, addio, cara, principessa, – rispose il principe, volgendole le spalle.
— Oh! – disse la madre al figlio, montati che furono in carrozza, – il suo stato è proprio disperato. Quasi non riconosce più nessuno.
— Non capisco, mamma, com’egli sia disposto verso Piero.
— Tutto metterà in chiaro il testamento... Anche la nostra fortuna ne dipende.
— Ma perchè credete che debba anche a noi lasciar qualche cosa?
— Ah, figlio mio! Il conte è così ricco e noi siamo così poveri!
— Ebbene, non mi par questo un motivo sufficiente, mamma.
— Ah, Dio mio! Dio mio! come sta male! – esclamò la madre.
Partita la Drubezkoi per andar col figlio a casa del conte ammalato, la contessa Rostow restò sola a lungo, premendosi il fazzoletto agli occhi lagrimosi. Finalmente suonò un campanello.
— O che? non sentite? – disse irritata alla cameriera che s’era fatta aspettare qualche minuto. – Se il servizio vi è venuto a noia, cercatevi pure un altro posto.
Un po’ le proprie afflizioni, un po’ l’umiliante povertà dell’amica l’aveano messa di cattivo umore.
— Perdonate, – si scusò la cameriera.
— Pregate il conte di venir da me.
Il conte, dondolandosi come al solito e in aspetto contrito, si avvicinò alla moglie.
— Eh, eh, cara la mia contessina! Avremo un sauté di pernici al madera da leccarsene le dita! L’ho assaggiato, sai. Parola d’onore, quel Taras vale i mille rubli all’anno che mi costa.
Sedette accanto alla moglie, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si passò le mani nei capelli brizzolati.
— Sentiamo, che comanda la mia contessina?
— Ecco di che si tratta, amico mio... Ma che hai costì sul panciotto?... una macchia di grasso, del tuo sauté, probabilmente... Ecco dunque di che si tratta.... Ho bisogno di danari.
— Ah, se non è che questo...
E il conte cavò subito di tasca il portafogli.
— Di molti danari... Mi servono non meno di cinquecento rubli.
Così dicendo, cercava pulire col fazzoletto di batista il panciotto del marito.
— Subito, subito... Ehi, chi è di là? – gridò questi come chi è sicuro di una pronta e servile obbedienza. – Venga qui Demetrio!
Demetrio, quel nobile scaduto che sbrigava tutti gli affari del conte, entrò di lì a poco a passi lenti e con aria rispettosa.
— Senti, caro... Portami... sì, ora che ci penso, portami 700 rubli... Ma che non siano sudici e laceri, come l’altra volta... Servono per la principessa.
— Sì, che siano puliti, nuovi, mi raccomando, – disse costei.
— Per quando, eccellenza? – domandò Demetrio. – Deve sapere vostra eccellenza, che... Ma no, no, – si corresse subito, vedendo che il conte cominciava a tirare il fiato grosso, indizio sicuro di tempesta imminente, – mi scordavo... Vuole vostra eccellenza che li porti subito?
— Ma sì, subito. E li consegnerai alla contessa... Un uomo d’oro, questo Demetrio, – soggiunse il conte, quando quegli fu andato via. – Niente d’impossibile per lui. Ed io i dubbiosi, gl’irresoluti, non li posso soffrire. Tutto è possibile, quando si vuole.
— Ah, il danaro, conte, il danaro! quanti malanni al mondo per questo benedetto danaro! – sospirò la contessa. – Non ti figuri tu quanto ne avevo bisogno.
— Voi, contessina mia, siete una famosa scialacquatrice, – disse il conte; e, baciatale la mano, tornò nel suo studio.
Quando la Drubezkoi fu di ritorno, i danari erano già presso la contessa, tutti biglietti nuovi fiammanti, coperti da un fazzoletto sul tavolino. La Drubezkoi si accorse che l’amica era turbata.
— Ebbene, che c’è, amica mia? – domandò la contessa.
— Ah, che cosa terribile! Non lo si riconosce più. Sta così male, così male! Solo un minuto mi son fermata, e non ho detto nemmeno due parole.
— Annetta, per amor di Dio, non mi dir di no, – pregò ad un tratto la contessa arrossendo e prendendo i danari di sotto al fazzoletto.
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