La Drubezkoi capì a volo, e già si chinava per abbracciare a tempo debito l’amica.
— A Boris, da parte mia, perchè si faccia l’uniforme...
La Drubezkoi l’abbracciò e si mise a piangere. Anche la contessa si scioglieva in lagrime. Piangevano di tenerezza, perchè si sentivano così buone, così affezionate, perchè una cosa così vile come il danaro le occupava, perchè la gioventù loro era passata... Ma erano lagrime soavi, senza ombra di amarezza.
La contessa Rostow con le figlie e già con buon numero di convitati era in salotto. Il conte conduceva gli amici nello studio e metteva a loro disposizione la sua collezione di pipe turche. Di tratto in tratto, si affacciava alla porta per domandare: «È venuta?» Aspettavano Maria Achrosimow, soprannominata il terribile dragone , famosa non già per ricchezza o per nobiltà, ma per singolare buon senso e burbera franchezza. Tutta Mosca, tutta Pietroburgo, perfino la Corte la conoscevano; tutti l’ammiravano, tutti ne ridevano un poco e narravano sul suo conto amene storielle; tutti nondimeno, senza eccezione, la stimavano e ne aveano paura.
Nello studio, pieno di fumo, si discorreva della guerra, già dichiarata, e della leva in massa. La dichiarazione di guerra nessuno l’avea letta, ma tutti la sapevano avvenuta. Il conte sedeva in divano tra due fumatori. Taceva e non fumava, ma chinando il capo ora a destra ora a sinistra, guardava con visibile compiacenza ai due che discutevano, e che egli, com’era suo costume prediletto, aizzava l’uno contro l’altro. Questo spasso, dopo quello del boston, costituiva per lui una voluttà vera e propria.
Uno dei due era un borghese dal viso magro, pelato, rugoso e giallognolo, più vecchio che giovane, benchè vestisse come un giovinotto all’ultima moda. Sedeva alla turca, con le gambe raccolte sotto di sè, come persona di confidenza; e tenendo di sghembo l’ambra della pipa aspirava tratto tratto il fumo e strizzava un occhio. Era Scinscin, vecchio scapolo, cugino della contessa, conosciuto per una lingua sacrilega in tutti i salotti di Mosca. Trattava con aria d’indulgente protezione il suo interlocutore, un giovane ufficiale della Guardia, fresco, rubicondo, inappuntabilmente pulito, abbottonato, pettinato. Teneva quasi il bocchino della pipa nel mezzo della bocca, e con le rosee labbra leggermente aspirava il fumo e lo mandava fuori in piccoli cerchietti. Era quel medesimo Berg, insieme col quale Boris era entrato nel reggimento Semenovski, e che Natalia avea chiamato sposo di Vera per fare arrabbiar la sorella.
— Sicchè voi, mon très-honorable Alphonse, – disse Scinscin, cui piaceva condire il discorso con qualche frasetta francese, – voi contate di farvi una rendituccia servendo nella linea?
— No, signor Scinscin, io voglio solo dimostrare che c’è meno vantaggio in cavalleria che in fanteria. Ecco qual’è, poichè vi piace saperla, la mia posizione...
Berg parlava sempre preciso, tranquillo, deferente. Non si occupava che di sè; taceva quando discorrevasi di altri, ed era capace di tacere per più ore di fila. Ma non appena il discorso toccasse lui anche alla lontana, riacquistava subito la loquela e non c’era verso che la smettesse.
— La mia posizione è dunque questa. In cavalleria avrei riscosso non più di dugento rubli per quadrimestre, anche da tenente; adesso invece ne riscuoto dugento trenta, – disse con un sorriso soddisfatto, guardando ora a Scinscin, ora al conte, più che mai sicuro che il suo utile personale dovesse costituire il desiderio capitale degli altri.
— Oltre a ciò, passando nella Guardia io mi metto in evidenza; e poi le vacanze sono qui molto frequenti. E come avrei potuto cavarmela con soli dugento rubli? Adesso, vedete, riesco perfino a metter da parte, e me n’avanza anche per mandar qualche cosetta al babbo.
— Il bilancio è alla pari... Per un tedesco, ogni ciottolo è ciambella, come dice l’adagio, – sentenziò Scinscin, ammiccando al conte e passando l’ambra all’altro angolo della bocca.
Il conte si mise a ridere. Gli altri, vedendo che Scin- scin teneva cattedra, si accostarono per sentire. Berg, senza punto badare all’altrui indifferenza o ai sorrisi ironici, seguitava ad occuparsi del fatto suo: passando nella Guardia, avea guadagnato un grado sui compagni di reggimento; in tempo di guerra, poteva anche darsi che il suo capitano fosse ucciso, nel qual caso il posto sarebbe spettato all’ufficiale anziano, cioè a lui; nel reggimento poi tutti gli volevan bene; e finalmente il babbo era contento. Si deliziava in questi particolari; non sospettava nemmeno che gli altri potessero avere altri interessi. Ma tutto ciò che contava, era così piacevole, così aggiustato, e l’ingenuità del suo egoismo era a tal segno evidente, ch’egli riusciva a disarmare i suoi ascoltatori.
— Ebbene, – conchiuse Scinscin, battendogli sul ginocchio e mettendo giù i piedi dal divano, – volete che vi faccia un pronostico, giovanotto? In fanteria o in cavalleria, voi andrete sempre di galoppo.
Berg sorrise tutto contento. Il conte si mosse per passare in salotto e tutti lo seguirono.
***
Era quell’ora, che gl’invitati ad un pranzo, aspettando di esser chiamati in tavola, non appiccano lunghi discorsi, ma credono intanto indispensabile farsi vivi e non tacere, per dare a vedere di non essere impazienti. I padroni di casa, di tanto in tanto, guardano verso la porta e si scambiano un’occhiata; e gli ospiti, per conto loro, cercano d’indovinare chi o che cosa si aspetti: se un parente è in ritardo o se qualche vivanda non è ancora al punto di cottura.
Piero arrivò quando già si stava per dare in tavola, e si mise a sedere nel mezzo del salotto sulla prima seggiola che gli capitò, ingombrando il passaggio. Tentò la contessa di farlo parlare, ma egli non rispondeva che a monosillabi, ed ingenuamente si guardava intorno come se cercasse qualcuno. Senza pur saperlo, era d’impaccio e metteva tutti a disagio. La maggioranza degl’invitati, informati della storia con l’orso, lo squadravano curiosi, nè si facevan capaci che quell’omaccione tranquillo, avesse potuto giocare un tiro di quella fatta al povero commissario.
— È poco che siete arrivato? – domandò la contessa.
— Oui, madame, – rispose Piero, volgendosi appena.
— Non avete visto mio marito?
— Non, madame.
E sorrideva fuor di proposito.
— Se non mi sbaglio, siete stato poco tempo fa a Parigi?
— Oh! una città interessantissima.
La contessa scambiò un’occhiata con la Drubezkoi. Capì a volo costei che la si pregava d’intrattenere il giovane, e subito cominciò a parlargli del padre; ma anch’essa non ne cavò che monosillabi. Un vocio si levava intorno di frasi smozzicate: «I Rasumow... Molto gentile da parte sua... Siete troppo buono... Grazie, grazie... La contessa Apracsin...» La padrona di casa si alzò e si mosse verso la sala contigua.
— Maria Achrosimow? – suonò la sua voce.
— Proprio lei, – si udì una grossa voce femminile, e subito dopo apparve l’ospite tanto aspettata. Signore e signorine si alzarono. Maria Achrosimow si fermò sulla soglia, e dall’alto della robusta persona, tenendo eretta la sua testa cinquantenne dai trucioli grigi, girò intorno uno sguardo. Si aggiustava intanto a tutto suo comodo le larghe maniche della veste, come se stesse per rimboccarle.
— Augurii, augurii, alla mammina e alle figlie, – tuonò con la sua voce che dominava tutte le altre. – E tu come te la passi, vecchio peccatore? (al conte che le baciava la mano). Ci si annoia a Mosca, eh? Niente cacce... Ma non c’è rimedio, amico mio... Vedi come vengon su queste pollastre di ragazze. Volere o volare hai da pescar loro un marito... E tu, Natalia, cosacchino mio, come si va? Lo so che sei una birichina, epperò ti voglio bene.
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