«Io… be’… guarirà, vero?» fece il Primo Ministro, preoccupato.
Scrimgeour scrollò le spalle: stava già tornando verso il camino. «Be’, questo è quanto. La terrò informata, Primo Ministro… È probabile che sia troppo occupato per venire di persona. Nel caso manderò Caramell. Ha acconsentito a restare come consulente».
Caramell cercò di sorridere, ma senza successo; sembrava solo uno col mal di denti. Scrimgeour si stava già frugando in tasca in cerca della polvere misteriosa che faceva diventare verde il fuoco.
Il Primo Ministro fissò disperato entrambi per un attimo, poi le parole che aveva faticosamente represso tutta la sera esplosero all’improvviso: «Ma per l’amor del cielo… voi siete maghi ! Voi fate magie ! Siete in grado di risolvere… be’… tutto!»
Scrimgeour si voltò lentamente e scambiò uno sguardo incredulo con Caramell. Questi riuscì a produrre un vero sorriso e rispose con dolcezza: «Il guaio è che anche gli altri fanno magie, Primo Ministro».
E con questo i due maghi entrarono l’uno dopo l’altro nel fuoco verde vivo e sparirono.
A molti chilometri di distanza, la nebbia gelida che aveva premuto contro le finestre del Primo Ministro aleggiava sopra un fiume sudicio, tra rive piene di erbacce e di rifiuti. Un’immensa ciminiera, il rudere di una fabbrica in disuso, si innalzava cupa e minacciosa. Non c’erano rumori, a parte il sussurro dell’acqua nera, e nessun segno di vita tranne una volpe macilenta scesa sulla riva per annusare speranzosa alcuni vecchi cartocci di pesce e patatine nell’erba alta.
Ma in quel momento, con un debolissimo pop ,una sottile sagoma incappucciata apparve dal nulla sul greto del fiume. La volpe rimase immobile, lo sguardo diffidente fisso su quello strano nuovo fenomeno. La sagoma parve calcolare la propria posizione per alcuni istanti, poi si avviò a rapidi passi leggeri, col lungo mantello che frusciava sull’erba.
Un’altra figura incappucciata si materializzò con un secondo pop più sonoro.
«Aspetta!»
Il grido rauco spaventò la volpe appiattita tra gli arbusti, che balzò fuori dal suo nascondiglio e risalì la sponda. Ci fu un lampo di luce verde, un uggiolio, e la volpe ricadde a terra, morta.
La seconda figura rivoltò l’animale col piede.
«È solo una volpe» disse una decisa voce femminile da sotto il cappuccio. «Credevo che fosse un Auror… Cissy, aspetta!»
Ma l’altra, che si era fermata e si era voltata a guardare il lampo di luce, si stava già arrampicando su per la sponda dalla quale la volpe era appena caduta.
«Cissy… Narcissa… ascoltami…»
La seconda donna raggiunse la prima e la afferrò per un braccio, ma questa si divincolò.
«Torna indietro, Bella!»
«Devi ascoltarmi!»
«Ti ho già ascoltato. Ho deciso. Lasciami stare!»
La donna chiamata Narcissa arrivò alla sommità dell’argine, dove una fila di vecchie sbarre separava il fiume da una stretta stradina acciottolata. L’altra donna, Bella, la raggiunse all’istante. Rimasero fianco a fianco a guardare le file di fatiscenti case di mattoni oltre la strada, le finestre tetre e cieche nell’oscurità.
«Abita qui?» chiese Bella sprezzante. « Qui? In questo letamaio Babbano? Saremo le prime della nostra razza a mettere piede…»
Ma Narcissa non l’ascoltava: era scivolata in un varco tra le sbarre arrugginite e già attraversava la strada di corsa.
«Cissy, aspetta!»
Bella seguì Narcissa, col mantello che le fluttuava alle spalle, e la vide sfrecciare in un vicolo per finire in una seconda via quasi identica. Alcuni lampioni erano rotti; le due donne correvano tra macchie di luce e di buio profondo. Bella raggiunse Narcissa prima che girasse un altro angolo, e questa volta riuscì ad afferrarla per il braccio e a farla voltare.
«Cissy, non devi farlo, non puoi fidarti di lui…»
«Il Signore Oscuro si fida di lui, no?»
«Il Signore Oscuro… credo… si sbagli» ansimò Bella, e i suoi occhi brillarono per un istante sotto il cappuccio mentre si guardava intorno per controllare che fossero davvero sole. «In ogni caso, ci è stato detto di non parlare del piano con nessuno. Questo è tradimento del Signore Oscuro…»
«Lasciami, Bella!» ringhiò Narcissa, e sfoderò la bacchetta da sotto il mantello per puntarla minacciosa contro il viso dell’altra.
Bella si limitò a ridere. «Cissy, contro tua sorella? Non oseresti…»
«Non c’è più niente che non oserei!»sibilò Narcissa, con una nota isterica nella voce. Calò la bacchetta come un pugnale; ci fu un altro lampo di luce e Bella lasciò andare il braccio della sorella come se si fosse scottata.
« Narcissa! »
Ma l’altra era corsa avanti. Strofinandosi la mano, Bella ricominciò a correre, tenendosi ora a distanza mentre si addentravano nel labirinto deserto di case di mattoni. Infine Narcissa imboccò una strada chiamata Spinner’s End, sulla quale la torreggiante ciminiera sembrava incombere come un gigantesco dito ammonitore. I suoi passi echeggiarono sull’acciottolato davanti a finestre sprangate e rotte, finché giunse all’ultima casa, dove una luce tenue baluginava attraverso le tende di una stanza al piano terra.
Bussò alla porta prima che Bella, imprecando sottovoce, la raggiungesse. Insieme rimasero in attesa, ansanti, inalando l’odore del fiume sporco portato dalla brezza notturna. Pochi secondi dopo, avvertirono un movimento dietro la porta, che si aprì di uno spiraglio. Lo spicchio di un uomo le guardò, un uomo con lunghi capelli corvini spartiti in due bande attorno al volto olivastro dagli occhi neri.
Narcissa gettò indietro il cappuccio. Era così pallida che parve brillare nel buio: le lunghe ciocche bionde che le ricadevano sulla schiena le davano l’aspetto di un’annegata.
«Narcissa!» disse l’uomo, e aprì un po’ di più la porta, così che la luce cadde su di lei e anche su sua sorella. «Che piacevole sorpresa!»
«Severus» rispose lei in un sussurro teso. «Posso parlarti? È urgente».
«Ma certo».
Si fece da parte per lasciarla entrare. La sorella, ancora incappucciata, la seguì senza aspettare un invito.
«Piton» salutò seccamente passandogli davanti.
«Bellatrix» replicò lui, e la sua bocca sottile si arricciò in un sorriso vagamente beffardo. Chiuse la porta con uno scatto.
Erano entrati in un minuscolo salotto, che pareva un’oscura cella imbottita. Le pareti erano foderate di libri, in gran parte rilegati in vecchia pelle nera o marrone; un divano liso, una vecchia poltrona e un tavolo traballante erano riuniti in una pozza di luce tenue gettata da un lampadario a candele appeso al soffitto. Il luogo aveva un’aria trascurata, come se di solito non fosse abitato.
Piton fece cenno a Narcissa di accomodarsi sul divano. Lei si sfilò il mantello, lo gettò da un lato e sedette, fissandosi le bianche mani tremanti intrecciate in grembo. Bellatrix abbassò il cappuccio più lentamente; bruna quanto sua sorella era bionda, con occhi dalle palpebre grevi e la mascella pronunciata, non distolse lo sguardo da Piton e rimase in piedi alle spalle di Narcissa.
«Allora, che cosa posso fare per voi?» chiese Piton, sedendosi nella poltrona di fronte a loro.
«Siamo… siamo soli, vero?» chiese piano Narcissa.
«Sì, naturalmente. Be’, c’è Codaliscia, ma la feccia non conta, no?»
Puntò la bacchetta contro la parete di libri alle proprie spalle e con un’esplosione una porta segreta si spalancò, rivelando una stretta scala sulla quale stava un ometto, immobile.
«Come avrai capito, Codaliscia, abbiamo ospiti» disse Piton pigramente.
L’ometto strisciò ingobbito giù dagli ultimi scalini ed entrò nella stanza. Aveva piccoli occhi acquosi, il naso a punta e uno sgradevole sorrisetto lezioso. La mano sinistra accarezzava la destra, che sembrava rinchiusa in un lucido guanto d’argento.
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