Joanne K. Rowling
Harry Potter e la pietra filosofale
A Jessica, che ama i racconti,
ad Anne, li ama anche lei,
e a Di, che ha sentito questo per prima.
Capitolo 1
Il bambino sopravvissuto
Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.
Il signor Dursley era direttore di una ditta di nome Grunnings, che fabbricava trapani. Era un uomo corpulento, nerboruto, quasi senza collo e con un grosso paio di baffi. La signora Dursley era magra, bionda e con un collo quasi due volte più lungo del normale, il che le tornava assai utile, dato che passava gran parte del tempo ad allungarlo oltre la siepe del giardino per spiare i vicini. I Dursley avevano un figlioletto di nome Dudley e secondo loro non esisteva al mondo un bambino più bello.
Possedevano tutto quel che si poteva desiderare, ma avevano anche un segreto, e il loro più grande timore era che qualcuno potesse scoprirlo. Non credevano che avrebbero potuto sopportare che qualcuno venisse a sapere dei Potter. La signora Potter era la sorella della signora Dursley, ma non si vedevano da anni. Anzi, la signora Dursley faceva addirittura finta di non avere sorelle, perché la signora Potter e quel buono a nulla del marito non avrebbero potuto essere più diversi da loro di così. I Dursley rabbrividivano al solo pensiero di quel che avrebbero detto i vicini se i Potter si fossero fatti vedere nei paraggi. Sapevano che i Potter avevano anche loro un figlio piccolo, ma non lo avevano mai visto. E il ragazzino era un’altra buona ragione per tenere i Potter a distanza: non volevano che Dudley frequentasse un bambino di quel genere.
Quando i coniugi Dursley si svegliarono, la mattina di quel martedì grigio e coperto in cui inizia la nostra storia, nel cielo nuvoloso nulla faceva presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute in tutto il paese. Il signor Dursley scelse canticchiando la cravatta da giorno più anonima del suo guardaroba, e la signora Dursley continuò a chiacchierare ininterrottamente mentre con grande sforzo costringeva sul seggiolone Dudley che urlava a squarciagola.
Nessuno notò il grosso gufo bruno che passò con un frullo d’ali davanti alla finestra.
Alle otto e mezzo, il signor Dursley prese la sua valigetta ventiquattr’ore, sfiorò con le labbra la guancia della moglie, e tentò di dare un bacio a Dudley, ma lo mancò perché, in quel momento, in preda a un furioso capriccio, il pupo stava scagliando i suoi fiocchi d’avena contro il muro. «Piccolo monello!» commentò ridendo il signor Dursley mentre usciva di casa. Salì in macchina e percorse a marcia indietro il vialetto del numero 4.
Fu all’angolo della strada che notò le prime avvisaglie di qualcosa di strano: un gatto che leggeva una mappa. Per un attimo, il signor Dursley non si rese conto di quel che aveva visto; poi girò di scatto la testa e guardò di nuovo. C’era un gatto soriano ritto sulle zampe posteriori, all’angolo di Privet Drive, ma di mappe neanche l’ombra. Ma che diavolo aveva per la testa? La luce doveva avergli giocato qualche brutto tiro. Si stropicciò gli occhi e fissò il gatto, che gli ricambiò l’occhiata. Mentre l’auto girava l’angolo e percorreva un tratto di strada, il signor Dursley tenne d’occhio il gatto nello specchietto retrovisore. In quel momento il felino stava leggendo il cartello stradale che indicava Privet Drive. No, lo stava guardando; i gatti non sanno leggere le mappe e neanche i cartelli stradali. Il signor Dursley si riscosse da quei pensieri e allontanò il gatto dalla mente. Mentre si dirigeva in città, non pensò ad altro che al grosso ordine di trapani che sperava di ricevere quel giorno.
Ma una volta giunto ai sobborghi della città, avvenne qualcos’altro che gli fece uscire di mente i trapani. Fermo nel solito ingorgo del mattino, non poté fare a meno di notare che in giro c’erano un sacco di persone vestite in modo strano. Gente con indosso dei mantelli. Il signor Dursley non sopportava le persone che si vestivano in modo stravagante: bisognava vedere come si conciavano certi giovani! Immaginò che si trattasse di qualche stupidissima nuova moda. Mentre tamburellava con le dita sul volante, lo sguardo gli cadde su un capannello di quegli strampalati, vicinissimo a lui. Si stavano bisbigliando qualcosa tutti eccitati. Il signor Dursley sentì montargli la rabbia nel constatare che ce n’erano un paio tutt’altro che giovani. Ma che roba! Quello lì doveva essere più anziano di lui, e portava un mantello verde smeraldo! Che faccia tosta! Poi però gli venne in mente che potesse trattarsi di qualche sciocca trovata. Ma certo! Era gente che faceva una colletta per qualche motivo. Sì, doveva essere proprio così. In quella, il traffico riprese a scorrere e alcuni minuti più tardi il signor Dursley giunse al parcheggio della Grunnings con la mente di nuovo tutta presa dai trapani.
Nel suo ufficio, al nono piano, il signor Dursley sedeva sempre con la schiena rivolta alla finestra. Se così non fosse stato, quella mattina avrebbe avuto ancor più difficoltà a concentrarsi sui suoi trapani. Lui non vide i gufi volare a sciami in pieno giorno, ma la gente per strada sì. E li additavano, guardandoli a bocca aperta, passare a tutta velocità, uno dopo l’altro sopra le loro teste. La maggior parte di quella gente non aveva mai visto un gufo neanche di notte. Ciononostante, il signor Dursley ebbe il privilegio di una mattinata perfettamente normale, del tutto immune dai gufi. Uscì dai gangheri con cinque persone diverse. Fece molte telefonate importanti e qualche altro urlaccio. Fino all’ora di pranzo, il suo umore si mantenne ottimo. A quel punto decise che, per sgranchirsi le gambe, avrebbe attraversato la strada per andarsi a comperare una ciambella dal fornaio di fronte.
Aveva completamente dimenticato la gente con il mantello fino a che non ne superò un gruppetto proprio accanto al fornaio. Mentre passava, scoccò loro un’occhiata furente. Non sapeva perché, ma avvertì un certo disagio. Anche questi bisbigliavano tutti eccitati, ma di bossoli per la colletta nemmeno l’ombra. Fu passandogli accanto di ritorno dal fornaio, con in mano l’involto di un’enorme ciambella, che colse qualcosa di quello che stavano dicendo.
«I Potter, proprio così, è quel che ho sentito…»
«… già, il figlio, Harry…»
Il signor Dursley si fermò di colpo. Fu invaso dalla paura. Si voltò a guardare il capannello di maldicenti come se volesse dire loro qualcosa, ma poi ci ripensò.
Attraversò la strada a precipizio e raggiunse in tutta fretta il suo ufficio; intimò alla segretaria di non disturbarlo per nessuna ragione, afferrò il telefono, e aveva quasi finito di fare il numero di casa quando cambiò idea. Mise giù il ricevitore, si lisciò i baffi, pensando no, era stato uno stupido. Potter non era poi un nome così insolito. Fra certo che esistessero miriadi di persone chiamate Potter che avevano un figlio di nome Harry. E poi, ora che ci pensava, non era neanche tanto sicuro che suo nipote si chiamasse proprio Harry. Del resto, non lo aveva neanche mai visto. Avrebbe potuto chiamarsi Harvey. O Harold. Non c’era ragione di impensierire la signora Dursley; se la prendeva tanto ogni volta che le si parlava della sorella! E non poteva darle torto: se l’avesse avuta lui, una sorella così… E tuttavia, quella gente avvolta nei mantelli…
Quel pomeriggio trovò molto più difficile concentrarsi sui suoi trapani, e quando lasciò l’ufficio alle cinque in punto era ancora talmente assorto che, appena varcata la soglia, andò a sbattere dritto dritto contro una persona.
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