Robert Jordan - Il Drago Rinato
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«Sangue e ceneri» borbottò Mat. «Colpire una donna seduta! Cosa volevi fare? Non riusciva neppure a muoversi!» Tutt’e tre si girarono a fissarlo e Mat emise un verso strozzato, come se l’aria intorno a lui si fosse mutata in gelatina. Si alzò a mezz’aria, fino a penzolare con i piedi a un buon passo dal pavimento. “Oh, maledizione, il Potere!" pensò. “Qui avevo paura che le Aes Sedai lo usassero su di me e ora lo usano invece le tre che sono venuto a salvare. Maledizione!"
«Tu non capisci mai niente, Matrim Cauthon» disse Egwene, con voce tesa.
«E finché non capirai, ti suggerisco di tenere per te le tue opinioni» rincarò Nynaeve, con voce ancora più tesa.
Elayne si accontentò di guardarlo con un’occhiata che a Mat ricordò la propria madre, quando usciva a tagliare un ramo da usare come sferza.
Per qualche ragione, si trovò a rivolgere loro il sorriso che così spesso aveva spinto sua madre a cercare la sferza. Maledizione, se erano in grado di fare una cosa del genere, non capiva come qualcuno fosse riuscito a rinchiuderle in cella, tanto per cominciare!
«Capisco solo» disse «che vi ho tolto da un posto da cui non potevate uscire e che mostrate la stessa gratitudine di un maledetto abitante di Taren Ferry col mal di denti!»
«Hai ragione» rispose Nynaeve. Mat toccò terra così duramente da sentirsi ballare i denti. Ma poteva di nuovo muoversi. «Per quanto mi dispiaccia ammetterlo» soggiunse Nynaeve «hai ragione.»
Mat fu tentato di replicare ironicamente, ma nella voce di Nynaeve c’era il massimo tono di scusa per lei possibile. «Ora possiamo andarcene?» disse invece. «Con i combattimenti in corso, Sandar ritiene che sia possibile uscire da una porticina nei pressi del fiume.»
«Io ancora non me ne vado, Mat» disse Nynaeve.
«Voglio trovare Liandrin e strapparle la pelle» incalzò Egwene, col tono di chi parla alla lettera.
«Voglio picchiare Joiya Byir fino a farla squittire» disse Elayne «ma mi accontenterò anche di una delle altre.»
«Siete diventate sorde?» ringhiò Mat. «Nella Pietra infuria una battaglia! Sono venuto a salvarvi e intendo salvarvi.» Egwene gli passò davanti e intanto gli diede un buffetto sulla guancia, imitata da Elayne. Nynaeve si limitò a sbuffare. Mat le fissò a bocca aperta. «Perché non hai detto niente?» sbottò, rivolto a Sandar.
«Ho visto a cosa sono serviti i tuoi discorsi» rispose con semplicità l’acchiappaladri. «Non sono scemo.»
«Be’, non resto in mezzo a una battaglia!» gridò Mat alle donne, che in quel momento scomparivano al di là della porticina a sbarre. «Me ne vado, avete capito?» Quelle non si girarono nemmeno. “Finiranno per farsi uccidere” pensò Mat. “Qualcuno pianterà loro una spada in corpo, mentre quelle guardano dall’altra parte!" Con un ringhio si mise in spalla il bastone e si mosse per seguirle. «Tu rimani?» disse a Sandar. «Non sono arrivato fin qui per lasciarle morire adesso!»
Sandar lo raggiunse nella stanza delle torture. Le tre donne erano già scomparse, ma non sarebbe stato difficile trovarle. Bastava cercare uomini sospesi a mezz’aria, si disse Mat. Maledette donne! Allungò il passo.
Perrin percorse con determinazione i corridoi della Pietra, cercando qualche segno di Faile. L’aveva salvata altre due volte: la prima, liberandola da una gabbia di ferro assai simile a quella che aveva imprigionato l’Aiel a Remen; la seconda, aprendo un baule d’acciaio con un falco inciso sul fianco. Tutt’e due le volte lei l’aveva chiamato per nome ed era svanita. Hopper gli trotterellava a fianco e fiutava l’aria. Per quanto fosse acuto il fiuto di Perrin, quello del lupo era superiore: era stato Hopper a guidare Perrin al baule.
Perrin si domandò se sarebbe mai riuscito a liberarla davvero. Ormai da un pezzo non ne vedeva segno. I corridoi della Pietra erano deserti; c’erano lanterne accese, arazzi e armi appesi alle pareti, ma niente che si muovesse, a parte lui e Hopper. Tuttavia Perrin pensava d’avere scorto Rand: era stata una fuggevole visione, un uomo che correva come se inseguisse qualcuno. Non poteva essere Rand, si disse Perrin; non poteva essere Rand, eppure lui pensava che si trattasse di Rand.
Hopper accelerò all’improvviso e si diresse a un’altra serie di alte porte, stavolta rivestite di bronzo. Perrin cercò di stargli al passo, inciampò e cadde carponi; protese la mano per non finire con la faccia a terra. Era invaso dalla debolezza, come se i muscoli gli si fossero mutati in acqua. La sensazione diminuì, ma gli portò via un po’ di forza. Gli fu difficile rimettersi in piedi. Hopper si era girato a guardarlo.
«Sei qui troppo in sostanza, Giovane Toro. La carne s’indebolisce. Non t’importa di starvi attaccato a sufficienza. Presto carne e sogno moriranno insieme.»
«Trovala» disse Perrin. «Non chiedo altro. Trova Faile.»
Occhi gialli incrociarono occhi gialli. Il lupo si girò e trottò verso una porta. «Qua dentro, Giovane Toro.»
Perrin spinse i battenti. Senza il minimo risultato. Non c’era modo visibile per aprirli, nessuna maniglia, nessun appiglio. C’era un minuscolo disegno inciso nel metallo, così fine che gli era quasi sfuggito. Migliaia di minuscoli falchi.
Perrin si augurò che Faile fosse davvero lì: non avrebbe resistito ancora a lungo. Con un grido, vibrò il martello. Il bronzo risuonò come un enorme gong. Perrin colpì di nuovo e il rimbombo divenne più intenso. Al terzo colpo, i battenti di bronzo si frantumarono come vetro.
Dentro, a cento passi dalla porta, un cerchio di luce circondava un falco incatenato al posatoio. Il resto dell’ampia sala era avvolto nelle tenebre, ma si udiva un debole fruscio di centinaia d’ali.
Perrin mosse un passo nella sala; dalle tenebre un falco calò in picchiata e con gli artigli gli graffiò il viso. Perrin si riparò col braccio gli occhi (artigli gli lacerarono la pelle) e barcollò verso il posatoio. I rapaci lo assalivano in continuazione, si lanciavano in picchiata, lo colpivano, gli laceravano la carne; ma Perrin, col sangue che gli colava dall’avambraccio e dalle spalle, continuò ad avanzare, lo sguardo fisso sul falco incatenato al posatoio. Aveva perduto il martello, non sapeva dove; ma sapeva che, se fosse tornato a cercarlo, sarebbe morto prima di trovarlo.
Mentre raggiungeva il posatoio, gli artigli affilati lo fecero cadere sulle ginocchia. Perrin scrutò da sotto il braccio il falco sul posatoio, che gli restituì lo sguardo, con occhi scuri, immobili. La catena che gli legava la zampa era attaccata al posatoio mediante un piccolo lucchetto sagomato a forma di istrice. Senza badare agli altri falchi divenuti ora un turbine d’artigli affilati, Perrin afferrò con tutt’e due le mani la catena e con le ultime forze la spezzò. Dolore e falchi gli portarono tenebra.
Aprì gli occhi e sentì un dolore intenso, come se gli avessero tagliuzzato con mille coltelli il viso, le braccia, le spalle. Non importava. Faile, inginocchiata al suo fianco, lo guardava, preoccupata, e con un panno già zuppo di sangue gli ripuliva il viso.
«Mio povero Perrin» disse piano. «Mio povero fabbro. Che orribili ferite!»
Con uno sforzo che gli costò altra sofferenza, Perrin girò la testa. Si trovava nella stanza da pranzo privata della Stella; accanto a una gamba del tavolo, c’era una statuetta di legno a forma di istrice, spaccata in due. «Faile» mormorò Perrin. «Mio falco.»
Rand si trovava sempre nel Cuore della Pietra, ma la situazione era diversa. Non c’erano uomini in lotta, né morti: c’era soltanto lui. All’improvviso udì echeggiare il suono di un grande gong, una volta, due volte, e sentì vibrare sotto i piedi le pietre stesse. Il rimbombo echeggiò una terza volta e s’interruppe di colpo, come se il gong fosse andato in frantumi. Scese il silenzio.
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