Robert Jordan - Il Drago Rinato
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«Si chiama Leya? Rimpiango d’averlo visto. Mi fa stare peggio, sapere e non potere... Perrin, ho visto il suo viso librarsi sopra la sua spalla, coperto di sangue, a occhi sbarrati. Il significato è chiarissimo.» Rabbrividì e si strofinò vivacemente le mani. «Luce santa, vorrei vedere più spesso cose allegre. Pare invece che siano scomparse tutte.»
Perrin aprì bocca per suggerirle d’avvisare Leya, ma ci ripensò. Non c’era mai alcun dubbio, su ciò che Min vedeva e capiva, per il meglio o per il peggio. Se lei era certa, l’evento si verificava.
«Sangue sul viso» mormorò. «Significa che morirà di morte violenta?» Ebbe una smorfia, accorgendosi della facilità con cui l’aveva detto. Ma che cosa poteva fare? Se avesse informato Leya, se fosse riuscito a convincerla, lei avrebbe vissuto nella paura i suoi ultimi giorni e niente sarebbe cambiato.
Min annuì brevemente.
Se Leya fosse morta di morte violenta, si disse Perrin, forse ci sarebbe stato un attacco all’accampamento. Ma ogni giorno c’erano esploratori nei dintorni... sentinelle giorno e notte. E Moiraine aveva posto protezioni intorno al campo; nessuna creatura del Tenebroso l’avrebbe visto, se non ci fosse capitata proprio dentro. Pensò ai lupi... e si rifiutò di servirsene. Gli esploratori avrebbero scoperto chiunque cercasse d’avvicinarsi.
«C’è molta strada, per tornare fra i Calderai» disse, quasi fra sé. «I Girovaghi non avranno portato i loro carrozzoni più in là delle colline ai piedi delle montagne. Tra lì e qui, potrebbe accadere di tutto.»
Min annuì tristemente. «E non siamo tanto numerosi da rinunciare anche a un solo soldato che l’accompagni. Anche se servisse.»
Gliene aveva già parlato: quando, a sei o sette anni, aveva infine capito che gli altri non erano come lei, aveva cercato d’avvertire la gente. Non si era dilungata, ma Perrin aveva l’impressione che i suoi avvertimenti avessero soltanto peggiorato le cose, nei rari casi in cui la gente le credeva. Non era facile credere nella seconda vista di Min, finché non se ne aveva la prova.
«Quando?» domandò. La parola gli suonò fredda e dura come un utensile d’acciaio. Non poteva fare niente per Leya, ma forse poteva scoprire se sarebbero stati assaliti.
Min alzò le mani in un gesto di stizza; però mantenne bassa la voce. «Non è come credi» replicò. «Non so mai quando una cosa avverrà. So soltanto che avverrà... se capisco il significato di ciò che vedo. La vista non mi viene a comando; e neppure la comprensione. Viene e basta. A volte capisco. Qualcosa. Frammenti. Viene e basta.» Perrin cercò di calmarla, ma lei voleva sfogarsi e continuò come fiume in piena: «Un giorno posso vedere cose intorno a una persona, un altro giorno non vedo niente. Per la maggior parte del tempo non vedo niente intorno a nessuno. Naturalmente le Aes Sedai hanno sempre delle immagini intorno a sé, e anche i Custodi, per quanto nel loro caso sia più difficile capire il significato.» Rivolse a Perrin un’occhiata penetrante, furtiva. «Accade la stessa cosa anche nei confronti di alcuni altri.»
«Non dirmi cosa vedi, se mi guardi» l’ammonì in fretta Perrin; poi scrollò le grosse spalle. Anche da bambino era più grosso degli altri e aveva imparato in fretta quanto fosse facile fare male senza volerlo ai più piccoli. Allora era diventato prudente, cauto; e si pentiva degli scatti d’ira, quando li mostrava. «Scusa, Min» riprese. «Non dovevo parlarti così bruscamente. Non volevo ferirti.»
Lei lo guardò, sorpresa. «Non mi hai ferito» disse. «Per fortuna, ben pochi vogliono davvero sapere cosa vedo. Io non vorrei, se ci fosse un altro in grado di vedere.» Ma neppure le Aes Sedai avevano notizia di altri che possedessero quel dono. “Dono” secondo loro, non certo secondo Min.
«Vorrei proprio poter fare qualcosa per Leya. Non sopporto di sapere e non poter intervenire, al contrario di te.»
«È strano che ti stiano tanto a cuore i Tuatha’an» replicò lei, piano. «Loro sono completamente estranei alla violenza, mentre vedo sempre violenza intorno a...»
Perrin girò la testa e Min s’interruppe bruscamente.
«Tuatha’an?» disse una voce che pareva il ronzio d’un enorme calabrone. «Cosa c’è, sui Tuatha’an?» L’Ogier si avvicinò al fuoco, tenendo il segno nel libro, con un dito grosso come un salsicciotto. Nell’altra mano reggeva la pipa, da cui si alzava un sottile filo di fumo. Portava una giubba di lana marrone scuro, abbottonata fino al collo e svasata alle ginocchia, sopra gli stivali risvoltati. Perrin gli arrivava appena al petto.
Il viso di Loial, col naso tanto largo da sembrare un grugno e con la bocca troppo grossa, aveva spaventato più d’uno. Gli occhi erano grandi come piattini, le folte sopracciglia penzolavano come baffoni fin quasi sulle guance e le orecchie appuntite e villose sporgevano fra i capelli. Chi non aveva mai visto gli Ogier, lo scambiava per un Trolloc, anche se i Trolloc erano creature leggendarie quanto gli Ogier stessi.
Loial perdette il sorriso e batté le palpebre, rendendosi conto d’avere interrotto gli altri due. Perrin si domandò come ci si potesse spaventare degli Ogier. Eppure, secondo alcune antiche storie, sapevano essere nemici fieri e implacabili. Lui ne dubitava: gli Ogier non erano nemici di nessuno.
Min informò Loial dell’arrivo di Leya, ma non di ciò che aveva visto intorno alla Girovaga. Di solito teneva per sé ciò che vedeva, soprattutto se non erano cose belle. Disse invece: «Dovresti sapere come mi sento, Loial, presa in mezzo all’improvviso fra le Aes Sedai e questa gente dei Fiumi Gemelli.»
Loial rispose con un borbottio non impegnativo che Min parve prendere per consenso.
«Sì» continuò enfaticamente. «Me ne stavo lì a Baerlon, a vivere come piace a me, quando all’improvviso sono stata afferrata per la collottola e scagliata la Luce sa dove. La mia vita non mi è più appartenuta, da quando ho incontrato Moiraine. E questi contadini dei Fiumi Gemelli.» Roteò gli occhi verso Perrin, con una smorfia. «Volevo solo vivere come più mi piaceva, innamorarmi dell’uomo da me scelto...» Arrossì all’improvviso e si schiarì la voce. «Voglio dire, cosa c’è che non va, nel voler vivere la propria vita senza tutti questi sconvolgimenti?»
« Ta’veren » cominciò Loial. Con un gesto Perrin cercò di fermarlo, ma era già difficile farlo rallentare, altro che bloccarlo, quando l’Ogier si lasciava prendere da uno dei suoi argomenti preferiti. Loial, per il modo di vedere degli Ogier, era considerato estremamente frettoloso. Si mise in tasca il libro e, gesticolando con la pipa, proseguì: «Tutti noi influiamo sulla vita di altri. Mentre la Ruota del Tempo ci intesse nel Disegno, il filo della vita di ciascuno tira e strattona quello della vita di altri intorno a noi. La stessa cosa accade per chi è ta’veren , ma in maniera molto più accentuata. I ta’veren tirano l’intero Disegno, per un certo tempo almeno, e lo costringono a sagomarsi intorno a loro. Più vicino sei a un ta’veren , più ne sei toccata personalmente. Si suol dire che se ti trovassi nella stessa stanza insieme con Artur Hawkwing, sentiresti il Disegno cambiare, forma. Non so quanto sia vero, ma ho letto che è così. Però non funziona in un solo senso. Gli stessi ta’veren sono intessuti più strettamente del resto di noi e hanno meno scelte.»
"Ben poche, di quelle che contano” pensò Perrin con una smorfia.
Min scosse la testa. «Vorrei solo che non fossero così... così maledettamente ta’veren per tutto il tempo. Ta’veren che tirano da una parte, Aes Sedai che s’impicciano dall’altra... Cosa resta, a una povera donna?»
Loial si strinse nelle spalle. «Ben poco, immagino, finché rimane vicino ai ta’veren. »
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