Robert Jordan - Il Drago Rinato

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Il solletico divenne un prurito.

Avrebbe potuto accantonare il prurito, ma il senso d’attesa non sarebbe scomparso. Come se lui si fosse trovato a barcollare sull’orlo d’un precipizio. Come se ogni cosa barcollasse. Perrin si domandò se nelle montagne circostanti c’era qualcosa di spiacevole. Forse poteva scoprirlo: in luoghi come quello, dove gli uomini venivano di rado, quasi sempre c’erano lupi. Scacciò l’idea, prima che avesse tempo d’attecchire. Meglio non domandarsi niente, meglio lasciar stare i lupi. Non erano numerosi, ma avevano esploratori. Se lì intorno c’era qualcosa, l’avrebbero scoperto. Però quella era la sua fucina: se ne sarebbe occupato lui e avrebbe lasciato che i lupi si occupassero della loro.

Grazie alla vista più acuta degli altri, fu il primo a scorgere il cavaliere che giungeva dalla direzione del Tarabon. Persino ai suoi occhi, era soltanto una chiazza di vivaci colori a dorso di cavallo che procedeva tortuosamente fra gli alberi lontani, ora visibile, ora nascosta. Un cavallo pezzato, pensò Perrin. Era ora! Aprì la bocca per annunciare l’arrivo della donna a cavallo (sarebbe stata una donna, come quelle che l’avevano preceduta) quando Masema borbottò: «Corvo!» come se imprecasse.

Perrin alzò di scatto la testa. Un grosso uccello nero perlustrava il terreno, volando sopra la cima degli alberi, a meno di trecento piedi di distanza. Forse cercava una carogna nella neve o qualche piccolo animale, tuttavia Perrin non poteva correre il rischio. Pareva che il corvo non li avesse visti, ma fra breve avrebbe visto di sicuro il cavaliere in arrivo. Senza esitare, Perrin sollevò l’arco, lo tese — impennatura alla guancia, all’orecchio — e scagliò la freccia, il tutto in un unico, fluido movimento. Si accorse vagamente dello schiocco della corda, perché concentrava sull’uccello nero tutta l’attenzione.

All’improvviso, colpito dalla freccia, il corvo roteò su se stesso, fra uno schizzo di piume nere, e cadde verso terra, mentre altre due frecce saettavano nel punto dove si trovava fino all’attimo prima. Tendendo in parte l’arco, gli altri shienaresi frugarono il cielo per scoprire se il corvo avesse compagni.

«Deve fare rapporto, oppure... lui... vede ciò che vede il corvo?» disse piano Perrin. Non aveva avuto intenzione di farsi udire dagli altri, ma Ragan, lo shienarese più giovane, comunque di quasi dieci anni più anziano di lui, gli rispose, mentre incoccava una freccia.

«Deve fare rapporto. In genere, a un Mezzo Uomo.» Nelle Marche di Confine c’era un premio per l’uccisione dei corvi: nessuno osava presumere che un qualsiasi corvo fosse un semplice uccello. «Luce santa, se il Tenebroso vedesse con gli occhi dei corvi, saremmo morti ancora prima d’arrivare alle montagne.» Parlò con calma: per un soldato shienarese, era una faccenda di tutti i giorni.

Perrin rabbrividì, non per il freddo, e in fondo alla mente una parte di lui ringhiò una sfida all’ultimo sangue. Il Tenebroso si serviva spesso di corvi, di cornacchie e, nelle città, di ratti. Dalla faretra agganciata alla cintura, dove bilanciava l’ascia posta sull’altro fianco, Perrin prese un’altra freccia a punta larga.

«Sarà anche grosso come un randello» disse con ammirazione Ragan, guardando l’arco di Perrin «ma tira che è un piacere. Non vorrei scoprire di persona cosa può fare a un uomo in armatura.» Al momento, sotto la normale giubba, gli shienaresi portavano solo una leggera cotta di maglia, ma in genere combattevano indossando l’armatura, sia uomini, sia cavalli.

«Troppo lungo, da cavallo» brontolò Masema: la cicatrice triangolare sulla guancia scura rese più beffardo il suo sogghigno sprezzante. «Un buon pettorale fermerebbe anche una freccia a punta sottile, tranne che da brevissima distanza; e se sbagli il primo tiro, il tuo bersaglio ti sventra.»

«Il punto è proprio questo, Masema» replicò Ragan, un po’ più rilassato, poiché il cielo rimaneva sgombro. Di sicuro il corvo era stato da solo. «Con questo arco dei Fiumi Gemelli, non occorre avvicinarsi molto.»

Masema aprì bocca per ribattere.

«Tenete a freno la linguaccia, voi due!» intervenne, brusco, Huno. Con la lunga cicatrice sulla guancia sinistra e l’orbita vuota, aveva un viso duro anche per uno shienarese. Nell’autunno, durante il viaggio verso le montagne, si era comprato una toppa dipinta: un occhio perennemente corrucciato, d’un feroce color rosso, non faceva niente per rendere più facile affrontare il suo sguardo. «Se non riuscite a tenere la maledetta mente concentrata sul vostro maledetto compito, un turno di guardia extra stanotte vi farà passare la voglia di distrarvi.» Sotto il suo sguardo fisso, Ragan e Masema smisero di discutere. Huno rivolse ai due ancora un’occhiata torva, che svanì mentre lui si rivolgeva a Perrin. «Non vedi ancora niente?» domandò. Il tono era un po’ più stizzoso di quello che avrebbe usato nei riguardi di un comandante impostogli dal re dello Shienar o dal signore di Fal Dara, tuttavia dava la sensazione che Huno fosse pronto a fare qualsiasi cosa Perrin avesse suggerito.

Gli shienaresi sapevano quanto fosse acuta la vista di Perrin, ma parevano ritenerla dote normale, così come non davano peso al colore dei suoi occhi. Di lui sapevano ben poco, ma lo accettavano com’era. O come pensavano che fosse. Parevano accettare tutto e niente. Il mondo cambia, dicevano. Tutto gira sulle ruote del caso e del cambiamento. Se un uomo aveva occhi d’un colore che mai nessuno aveva avuto, cosa importava, ora?

«Arriva» rispose Perrin. «Ormai dovreste scorgerla. Laggiù.» Indicò il punto e Huno si sporse, aguzzando l’unico occhio. Alla fine annuì, poco convinto.

«Laggiù si muove qualche maledetta cosa» ammise. Altri annuirono e mormorarono. Huno li guardò in cagnesco e loro tornarono a scrutare il cielo e le montagne.

A un tratto Perrin capì il significato dei vivaci colori del lontano cavaliere. Una sottana verde vivo che sporgeva da un mantello rosso acceso. «Quella donna è dei Girovaghi» disse, sorpreso. Nessun altro indossava vestiti di colori così brillanti e bizzarramente assortiti.

Avevano aspettato e guidato nel cuore delle montagne donne d’ogni sorta: una mendicante coperta di stracci, che si era aperta a fatica la strada in una tormenta; una mercante che conduceva da sola una fila di cavalli da soma; una dama vestita di seta e di eleganti pellicce, con le redini del palafreno infiocchettate di nastri rossi e finiture dorate alla sella. La mendicante si era accomiatata con un borsello di monete d’argento... secondo Perrin, più di quanto potessero permettersi di dare; ma la dama aveva lasciato un borsello di monete d’oro, anche più pieno. Donne d’ogni condizione sociale, sempre da sole, provenienti dal Tarabon, dal Ghealdan, perfino dall’Amadicia. Ma lui non si era mai aspettato di vedere una donna Tuatha’an.

«Una maledetta Calderaia?» esclamò Huno. Gli altri fecero eco alla sua sorpresa.

Ragan scosse la testa. «Una Calderaia non s’immischierebbe in questa storia. O non è Calderaia, o non è quella che aspettiamo.»

«Calderai» ringhiò Masema. «Codardi buoni a nulla.»

Huno aguzzò l’occhio, fino a farlo sembrare punzone da maniscalco; con l’altro dipinto in rosso sulla toppa, aveva un aspetto brigantesco. «Codardi, Masema?» disse piano. «Se tu fossi una donna, avresti il coraggio di cavalcare fin quassù, da sola e disarmata?» Senza dubbio non avrebbe avuto armi, se era una Tuatha’an. Masema non replicò, ma la cicatrice sulla guancia divenne più sporgente e più livida.

«Maledizione, io non lo farei» disse Ragan. «E tu neppure,»

Masema. Masema si strattonò il mantello e scrutò con ostentazione il cielo. Huno sbuffò. «Voglia la Luce che quel maledetto mangiacarogne fosse da solo» brontolò.

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