Robert Jordan - Il Drago Rinato

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La collera si scavò la strada nella paura: Carridin si tastò il fianco, ma non trovò la spada. L’aveva lasciata nell’altra stanza, prima di presentarsi a Pedron Niall.

Il Myrddraal si mosse con la velocità d’una vipera. Carridin spalancò la bocca per gridare, mentre la mano del Myrddraal gli serrava il polso con forza sufficiente a spezzare le ossa e gli mandava lungo il braccio fitte di dolore. Però non emise alcun grido, perché con l’altra mano il Myrddraal gli afferrò il mento e lo costrinse a chiudere le mascelle. Carridin si sollevò sui talloni, poi non toccò più il pavimento. Fra grugniti e farfugli, penzolò nella stretta del Myrddraal.

«Ascoltami bene, uomo. Troverai quel giovanotto e lo ucciderai, al più presto possibile. Non credere di poter fingere. Ci sono altri, fra i vostri Figli, che mi riferiranno se farai il tuo dovere. Ma ti darò un incoraggiamento: se nel giro d’un mese Rand al’Thor non sarà morto, prenderò uno del tuo sangue. Un figlio, una figlia, una sorella, uno zio. Non saprai chi, finché il prescelto non sarà morto fra mille sofferenze. Se Rand al’Thor sopravvivrà un secondo mese, prenderò un altro tuo parente. E così via. E quando del tuo sangue non resterà nessuno tranne te, se Rand al’Thor sarà ancora vivo, ti porterò a Shayol Ghul.» Sorrise. «Impiegherai anni interi, a morire. Hai capito, ora?»

Carridin emise un verso a metà fra gemito e bisbiglio. Credeva che il collo gli si sarebbe spezzato da un momento all’altro.

Con un ringhio, il Myrddraal lo scagliò per terra. Carridin andò a sbattere contro la parete; intontito, scivolò sul tappeto e rimase disteso, faccia a terra, cercando di riprendere fiato.

«Hai capito, uomo?»

«A... ascolto e ubbidisco» riuscì a dire Carridin, con voce soffocata dal tappeto. Non ebbe risposta.

Girò la testa, con una smorfia per il dolore al collo. La stanza era vuota. I Mezzi Uomini cavalcavano le ombre come destrieri, dicevano le leggende; e quando scantonavano, scomparivano. Le pareti non li bloccavano. Carridin aveva voglia di piangere. Si rialzò e imprecò per la fitta di dolore al polso.

La porta si aprì; entrò di corsa Sharbon, un tipo grassoccio, che reggeva fra le braccia un cesto. Si fermò di colpo e fissò Carridin. «Padrone, ti senti bene?» domandò. «Perdonami, padrone, se non c’ero. Sono andato a comprare della frutta per la tua...»

Con la mano buona Carridin fece volare via il cesto e mandò vizze mele invernali a rotolare sui tappeti; poi rifilò a Sharbon un manrovescio in pieno viso.

«Perdonami, padrone» mormorò Sharbon.

«Vammi a prendere carta, penna e inchiostro» ringhiò Carridin. «Subito, idiota! Devo mandare ordini.»

Mentre Sharbon usciva di corsa, Carridin fissò i graffi sul piano del tavolo e rabbrividì.

1

Attesa

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda; la leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato, quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza — un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa — il vento si alzò nelle Montagne delle Nebbie. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Il vento spazzò lunghe valli, livide per la nebbia del mattino, alcune coperte di sempreverdi, alcune spoglie dove l’erba e fiori di campo sarebbero presto spuntati. Ululò fra rovine in parte sepolte e fra monumenti ridotti a macerie, dimenticati come coloro che li avevano costruiti. Gemette nei valichi, brecce erose dalle intemperie fra picchi incappucciati di nevi eterne. Dense nubi restavano incollate alle vette montane, tanto da sembrare un tutt’uno con le candide distese.

Nelle terre basse, l’inverno era passato o stava per passare; ma lì, sulle alture, durava ancora e ricopriva di chiazze bianche i fianchi delle montagne. Solo i sempreverdi mostravano foglie o aghi; i rami delle altre piante erano spogli, marrone o grigi contro la roccia o il terreno ancora in letargo. Non c’erano rumori, a parte il fruscio del vento su neve e pietra. La terra pareva in attesa. In attesa che qualcosa spuntasse.

In sella al cavallo, appena dentro un folto d’ericacee e di pini, Perrin Aybara rabbrividì e si strinse nel mantello foderato di pelliccia... per quanto gli era possibile, visto che in mano reggeva l’arco lungo e alla cintura portava la grande ascia dalla lama a mezzaluna. Era una buona ascia d’acciaio: quando mastro Luhhan l’aveva forgiata, Perrin stesso aveva azionato i mantici. Il vento gli tirò il mantello, gli scostò il cappuccio mettendo in mostra i ricci arruffati, gli penetrò nella giubba; Perrin piegò le dita dei piedi per scaldarli e cambiò posizione sulla sella dall’alto arcione posteriore, ma a dire il vero non pensava al freddo. Guardò i cinque compagni e si domandò se anche loro provassero la sua impressione: non l’impazienza dell’attesa per ciò che erano stati inviati ad aspettare, ma qualcosa di più.

Stepper, il suo cavallo, si mosse e agitò la testa. Perrin aveva dato quel nome al destriero dal mantello baio lupino per il modo in cui alzava gli zoccoli muovendosi velocemente; ora Stepper pareva percepire l’irritazione e l’impazienza del proprio cavaliere. “Sono stufo d’aspettare” pensò Perrin. “Di starmene seduto, mentre Moiraine ci tiene tutti impastoiati. Maledette Aes Sedai! Quando finirà?"

Istintivamente fiutò il vento. Vi prevaleva l’odore di cavallo, di persone, di sudore umano. Un coniglio aveva attraversato da poco il folto d’alberi, spinto dalla paura, ma la volpe che l’inseguiva non l’aveva ucciso li. Perrin si rese conto di ciò che faceva e si bloccò. “Credevo che tutto questo vento intasasse il naso” si disse. Quasi rimpianse che non fosse vero. “E non avrei permesso a Moiraine di curarmi."

In fondo alla mente sentì un solletico. Si rifiutò di riconoscerlo. Non ne parlò ai compagni.

Gli altri cinque erano in sella; tenevano pronto l’arco da cavaliere e scrutavano anche il cielo, oltre ai pendii coperti di radi alberi. Parevano indifferenti al vento che agitava come bandiere i mantelli. Da sopra la spalla di ciascuno, passando da un taglio praticato nel mantello, sporgeva l’elsa di una spada da impugnare a due mani. Nel vedere quelle teste scoperte, rasate a parte il ciuffo sulla cima, Perrin sentì più freddo. Per loro, quella era già primavera inoltrata. Avevano perduto ogni mollezza in una fucina più dura di quella da lui conosciuta. Quegli uomini erano shienaresi, provenivano dalle Marche di Confine lungo la Grande Macchia, dove in qualsiasi notte poteva verificarsi un’incursione di Trolloc, dove persino mercanti e contadini erano costretti a impugnare arco o spada. E loro non erano contadini, ma soldati quasi dalla nascita.

Perrin a volte si stupiva della deferenza che gli mostravano e di come l’avevano accettato quale capo. Pensavano, pareva, che lui avesse qualche diritto speciale, qualche conoscenza a loro nascosta. O forse, si disse ironicamente Perrin, il merito era tutto dei suoi amici. Quegli uomini non erano alti come lui, né altrettanto robusti — anni d’apprendistato come fabbro gli avevano dato braccia e spalle grosse il doppio del normale — ma lui aveva preso a radersi ogni giorno per porre termine alle loro battute sulla sua giovane età. Battute amichevoli, certo, ma pur sempre battute. Non voleva cercarsene altre, parlando loro della sensazione che provava adesso.

Con un sobbalzo ricordò a se stesso che in teoria anche lui doveva tenere gli occhi aperti. Controllò la freccia incoccata e intanto scrutò la valle che correva verso occidente, allargandosi man mano, striata di larghi e sinuosi nastri di neve, residuo dell’inverno. Laggiù gli sparsi alberi artigliavano ancora il cielo, con rami spogli; ma un certo numero di sempreverdi — pini ed ericacee, abeti e agrifogli, perfino alcuni altissimi larici — si alzava sui pendi e sul fondovalle, fornendo copertura a chi sapesse servirsene. Ma nessuno si sarebbe trovato da quelle parti, senza uno scopo ben preciso. Le miniere erano molto più a meridione, e ancora più a settentrione; molti ritenevano che nelle Montagne delle Nebbie si annidasse la sfortuna e pochi vi entravano, se potevano farne a meno. Gli occhi di Perrin luccicavano come oro brunito.

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