Robert Jordan - Il Drago Rinato

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Quando uscì sul pendio prospiciente il campo, bizzarre ombre gettate dal sole al tramonto riempivano la conca. Moiraine, ferma all’esterno della baracca, scrutava la fenditura. Perrin si bloccò. Moiraine era una donna snella, dai capelli neri, più bassa di lui d’una testa, e graziosa, con quell’aria eternamente giovanile di tutte le Aes Sedai che avessero usato per un certo tempo l’Unico Potere. Perrin non sapeva proprio quale età attribuirle: il viso era troppo liscio per indicare maturità e gli occhi scuri erano troppo saggi per indicare la prima giovinezza. La veste di seta azzurro scuro era gualcita e impolverata; i capelli, solitamente ben pettinati, mostravano qualche ciocca fuori posto. Sul viso c’era una macchia di polvere.

Perrin abbassò gli occhi. Moiraine era al corrente della sua condizione -lei e Lan, soli fra tutti quelli del campo — e a Perrin non piaceva la sua espressione saputa, quando lo guardava negli occhi. Occhi gialli. Un giorno, forse, avrebbe trovato il coraggio di chiederle che cosa sapeva. Di sicuro un’Aes Sedai ne sapeva più di lui. Ma non era questo il momento. Pareva che non ci fosse mai il momento giusto.

«Non... non voleva...» disse. «È stato un incidente.»

«Un incidente» ripeté lei, con voce atona; scosse la testa e scomparve dentro la baracca. La porta si chiuse con un rumore un po’ troppo forte, come sbattuta.

Perrin sospirò e proseguì verso i fuochi. L’indomani, se non quella notte stessa, ci sarebbe stata un’altra discussione, fra Rand e l’Aes Sedai.

Sui fianchi della conca c’erano alcuni alberi sradicati. Una scia di solchi e di terreno sconvolto arrivava fino al ruscello; c’era un macigno che prima mancava. Sul pendio opposto, una baracca era crollata e quasi tutti gli shienaresi erano occupati a ricostruirla. Loial li aiutava: con la sua forza poteva sollevare un tronco che avrebbe richiesto l’impiego di quattro uomini. Di tanto in tanto giungevano le imprecazioni di Huno.

Min, accanto ai fuochi, rimestava con aria ingrugnita il contenuto della pentola. Aveva un piccolo livido sulla guancia. Nell’aria aleggiava un debole odore di stufato bruciacchiato.

«Odio cucinare» disse Min, guardando dubbiosamente nella pentola. «Se la cena è rovinata, non è colpa mia. Rand ha fatto rovesciare sul fuoco metà del contenuto, con il suo... Che diritto ha, di sbatterci da una parte all’altra come sacchi di grano?» Si lisciò il fondo delle brache e trasalì. «Appena mi viene fra le mani, gliene do tante di quelle che se ne ricorderà per sempre.» Agitò verso Perrin il mestolo di legno, quasi volesse cominciare da lui.

«Qualcuno è rimasto ferito?»

«Solo lividi» rispose Min, torva. «Erano tutti sconvolti, certo, all’inizio. Poi hanno visto Moiraine guardare in direzione del nascondiglio e si sono detti che era opera di Rand. Se il Drago vuole farci cadere in testa la montagna, allora il Drago ha di sicuro una buona ragione per farlo. Se decidesse che devono togliersi di dosso la carne e ballare a ossa nude, lo riterrebbero giusto.» Sbuffò e batté il mestolo contro il bordo della pentola.

Perrin si girò a guardare la baracca di Moiraine. Se Leya era stata ferita... se era morta... l’Aes Sedai non si sarebbe limitata a tornare dentro. Il senso d’attesa permaneva. Qualsiasi cosa fosse, ancora non era accaduta.

«Min, faresti meglio ad andartene. Domattina. Posso darti qualche moneta d’argento e sono sicuro che Moiraine ti darebbe quanto basta a pagarti il passaggio in una carovana di mercanti del Ghealdan. Prima d’accorgertene, sarai di nuovo a Baerlon.»

Min lo guardò, finché Perrin non cominciò a chiedersi se avesse detto qualcosa di male. Alla fine lei rispose: «Sei davvero un tesoro, Perrin. Ma non me ne vado.»

«Credevo che volessi andartene. Continui a lamentarti d’essere costretta a stare qui.»

«Una volta conoscevo una vecchia di Illian» disse lentamente Min. «Quando lei era giovane, la madre le aveva combinato un matrimonio con un uomo che lei non aveva mai incontrato. A Illian si usa. Mi disse d’avere passato i primi cinque anni a sbraitare contro il marito e i cinque successivi a fare piani per rendergli infernale la vita senza che lui sapesse chi incolpare. Solo più tardi, dopo la sua morte, si rese conto che in realtà quell’uomo era stato il suo unico grande amore.»

«Non vedo cosa c’entri.»

La sua occhiata disse che Perrin chiaramente non s’impegnava per capire e la sua voce mostrò pazienza esagerata. «Solo perché il destino sceglie per te, non significa che la scelta sia per forza cattiva. Anche se si tratta di una scelta che secondo te non avresti mai fatto neppure in mille anni. Come dice il proverbio, meglio dieci giorni d’amore che anni interi di rimpianto.»

Appese il mestolo a un ramo forcuto piantato nel terreno e, a sorpresa, si alzò in punta di piedi e lo baciò sulla guancia. «Sei una brava persona, Perrin Aybara» disse. «Anche se non capisci niente.»

Perrin batté le palpebre, incerto. Rimpianse che non ci fossero Rand o Mat: lui era a disagio, con le donne, ma loro sapevano sempre come comportarsi.

«E tu?» proseguì Min. «Non ti viene mai la voglia di tornare a casa?»

«Ogni momento!» rispose Perrin, con fervore. «Ma non credo che... che mi sia possibile. Non ancora.» Guardò in direzione della valle di Rand: a quanto pareva, loro due erano legati strettamente. «Forse mai» soggiunse. Credette d’averlo detto troppo piano perché lei udisse, ma Min gli rivolse un’occhiata piena di simpatia e parve condividere il suo dubbio.

Con l’udito acuto che ora si ritrovava, percepì il debole rumore di passi e alzò gli occhi in direzione della baracca di Moiraine. Due figure scendevano nel crepuscolo sempre più scuro: una donna snella che procedeva con grazia anche sul pendio accidentato e un uomo molto più alto della compagna, che gli arrivava appena alla spalla; l’uomo deviò verso il punto dove lavoravano gli shienaresi. Anche agli occhi acuti di Perrin appariva come sagoma indistinta e a volte scompariva del tutto per ricomparire a metà passo, mentre parti di lui svanivano nella notte e ricomparivano a seconda delle raffiche di vento. Solo il mantello dei Custodi, dal colore mutevole, faceva questo effetto: quindi la figura più alta era Lan e quella più bassa era senza dubbio Moiraine.

A buona distanza da loro, un’altra sagoma, ancora più indistinta, scivolava fra gli alberi: Rand, che ritornava alla propria baracca. Anche quella sera, pensò Perrin, sarebbe rimasto senza cena, perché non sopportava il modo in cui gli altri l’avrebbero guardato.

«Si direbbe che tu abbia occhi anche sulla nuca» commentò Min, aggrottando le sopracciglia verso la donna in arrivo. «Oppure l’udito più acuto che si conosca. È Moiraine?»

Negligenza, si rimproverò Perrin. Si era abituato al fatto che gli shienaresi sapevano quale vista acuta possedesse (di giorno, almeno; non sapevano che di notte era la stessa cosa) al punto da commettere piccole imprudenze. La negligenza era ancora per lui un pericolo mortale.

Intanto Moiraine era giunta accanto al fuoco.

«La Tuatha’an sta bene?» le domandò Min.

«Riposa.» La voce bassa dell’Aes Sedai era come sempre musicale, quasi Moiraine cantasse, anziché parlare; si era rimessa in ordine vestiti e capelli. Si strofinò le mani e le accostò al fuoco. Alla sinistra portava un anello d’oro a forma di serpente che si morde la coda. Il Gran Serpente, simbolo dell’eternità, ancora più antico della Ruota del Tempo. Ogni donna addestrata a Tar Valon portava un anello simile.

Per un momento Moiraine osservò Perrin e parve penetrargli nella mente. «È caduta e si è lacerata il cuoio capelluto, quando Rand...» Serrò le labbra, ma subito tornò serena come sempre. «L’ho Guarita e ora dorme. Le ferite alla testa provocano sempre una grande perdita di sangue, ma il suo caso non è grave. Hai visto qualcosa che la riguardava?»

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