Algis Budrys - Il satellite proibito

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La fantascienza è l’unico genere letterario nel quale l’uomo sia direttamente e concretamente posto a confronto con l’infinito. In questo dato risiede il suo fascino principale: perchè dall’infinito emerge l'enigma, l’ignoto, l’incubo, ed il confronto si trasforma in una sfida. Questo romanzo di Algis Budrys (un autore che i lettori di «Futuro» hanno già avuto modo di apprezzare) ripropone uno dei temi più classici della narrativa fantascientifica: quello della minaccia nascosta in un mondo sconosciuto, del mistero che deve essere rivelato a rischio della vita. Il mondo che cela l’enigma, e dà corpo alla sfida, è il nostro satellite naturale: la Luna, che l’uomo ha appena sfiorata, e che cela nelle sue viscere un segreto mortale. Cosa si nasconde in fondo al labirinto dal quale nessun esploratore è mai uscito vivo? Quale intelligenza maligna ha potuto concepire una trappola cosi crudele e mostruosa? L’intelletto umano non possiede strutture adeguate a scandagliare un abisso così folle e contorto, anche perchè la «cosa» che si cela in fondo all’abisso è a sua volta al di là della follia e dell’assurdo. «Il satellite proibito» è il più originale e famoso tra i romanzi di Budrys.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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«Ma adesso me ne sto seduto a pensare. La notte non riesco a dormire, e la mattina, quando mi sveglio, mi sento anche peggio del giorno prima. Ci vogliono ore prima che non mi senta più come se il mio corpo ce l'avesse con me. Qualche volta credo che vada meglio, durante il giorno, soltanto perché m'intontisco, non per altro. Non mi sento mai bene. Sono sempre pieno di dolori che vengono dal nulla. Mi guardo nello specchio, e vedo un uomo malato… il tipo d'uomo di cui non avrei fiducia, se dovessimo svolgere un lavoro insieme.

Elizabeth inarcò un sopracciglio. — Credo che un po' di caffé ti farebbe bene.

Hawks fece una smorfia. — Preferirei un tè, se ne hai.

— Credo di sì. Ora vedo. — La ragazza attraversò lo studio, andò nell'angolo dove, dietro una tenda, stavano un fornello elettrico e una credenza.

— Oppure… Senti — gridò lui. — Sono uno sciocco. Il caffè andrebbe benissimo, se non hai del tè.

Sedettero insieme sul divano, bevendo il tè. Poi Elizabeth depose la tazza sul tavolino. — Cos'è successo, stasera? — domandò.

Hawks scosse il capo. — Non so bene. Una storia di donne, tanto per cominciare.

Elizabeth mormorò: — Oh.

— Non del genere solito — disse Hawks.

— Non pensavo che lo fosse.

— Perché?

— Perché tu non sei il solito tipo d'uomo.

Hawks aggrottò la fronte. — Già, lo penso anch'io. Almeno, sembra che io non susciti negli altri le reazioni abituali. E non so perché.

— Vuoi sapere cosa c'è fra te e le donne?

Hawks la guardò, sbattendo le palpebre. — Sì. Ci terrei moltissimo.

— Tu le tratti come esseri umani.

— Davvero? — Hawks scosse di nuovo il capo. — Non credo. Non sono mai riuscito a capirle molto bene. Non so perché facciano molte delle cose che fanno. Ho… Per la verità, ho sempre avuto molti guai con le donne.

Elizabeth gli sfiorò la mano. — Non mi sorprenderebbe affatto. Ma questo non c'entra. Adesso, pensa a una cosa: io sono molto più giovane di te.

Hawks annuì, con aria turbata. — Ci ho già pensato.

— Ed ora pensa anche a questo: non sei affascinante, bello o brillante. Per la verità, sei un po' buffo. Sei troppo occupato per dedicarmi un po'di tempo, e anche se mi portassi in giro per i night club , saresti così fuori posto che io non riuscirei a divertirmi. Ma qualcosa fai: mi fai sentire che le mie leggi hanno per me lo stesso valore che hanno per te le tue. Quando mi chiedi di fare qualcosa, so che non ti offenderesti se rifiutassi. E se accetto, tu non hai l'impressione di aver segnato un punto a tuo vantaggio in una sorta di gioco complicato. Non cerchi di approfittare di me, di viziarmi o di cambiarmi. Secondo la tua ottica, io occupo nel mondo lo stesso spazio che occupi tu. Hai un'idea di quanto sia rara una cosa simile?

Hawks era perplesso. — Sono contento che tu la pensi così — disse lentamente. — Ma non credo che sia vero. Senti… — Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, mentre Elizabeth restava seduta a guardarlo con un lieve sorriso.

— Le donne… — disse lui, di slancio. — Le donne mi hanno sempre affascinato. Da ragazzo, ho fatto le solite esperienze. Non ci ho messo molto a capire che la vita non era come sembrava dalle storie che circolavano alle scuole superiori. No, c'era qualcosa d'altro… che cosa, non lo so, ma c'era qualcosa nelle donne. Non mi riferisco alla parte fisica. Parlo di qualcosa di speciale che hanno le donne: uno scopo che non riuscivo ad afferrare. Ciò che mi turbava era il fatto che esistevano questi altri organismi intelligenti, nello stesso mondo in cui c'erano gli uomini, e che la loro intelligenza doveva avere un fine. Se tutte le donne servivano soltanto a perpetuare la specie, che bisogno avevano dell'intelligenza? Sarebbe stata sufficiente una semplice serie di istinti. E per la verità, gli istinti ci sono, quindi a che serviva l'intelligenza? C'erano uomini in abbondanza, per occuparsi di rendere confortevole l'ambiente fisico. Le donne non erano fatte per quello. Almeno, non era per questo che dovevano possedere l'intelligenza… Ma non ho mai scoperto la verità. Me lo sono sempre domandato.

Elizabeth sorrise: — Non capisci ancora che noi diciamo le stesse cose di voi.

Hawks sospirò e disse: — Forse è vero. Ma questo non mi spiega ciò che vorrei sapere.

Elizabeth fece, sottovoce: — Forse lo scoprirai presto. Intanto, perché non hai mai cercato di fare l'amore con me?

Hawks la fissò. — Per amor del cielo. Elizabeth, non ti conosco abbastanza!

— È esattamente quello che volevo dire di te — osservò Elizabeth, mentre il rossore le svaniva dal volto. — Ora, dottore, vuoi un'altra tazza di tè?

Elizabeth aveva ripreso a lavorare, al tavolo da disegno, con i tacchi infilati sulla traversa dello sgabello. Un filo di fumo si levava dal portacenere tenuto fermo da due puntine sull'orlo del tavolo. Ogni tanto, una spira le arrivava in faccia, costringendola a socchiudere gli occhi. Lei imprecava sottovoce e sorrideva a Hawks che, seduto su un puff accanto al tavolo, si stringeva con le mani le ginocchia piegate.

— All'università ero innamorato di una ragazza — disse lui. — Una ragazza di Chicago, molto carina. Era intelligente. Soprattutto, era piena di tatto. E aveva visto e fatto tante cose più di me… commedie, opere, concerti: tutte le cose che si possono avere in una grande città. L'invidiavo terribilmente, per questo, e l'ammiravo molto. Il fatto è che non cercai mai di condividere tutto questo con lei. Avevo l'idea, credo, che se le avessi chiesto di parlarmi di queste cose, gliele avrei portate via… le avrei preso qualcosa che lei s'era guadagnato e che io non avevo il diritto di rubarle. Ma ero convinto che una persona meravigliosa come lei poteva giudicare se io valevo qualcosa o no. Almeno, immagino che la pensassi così, allora. Comunque, mi decisi e le chiesi di condividere tutto con lei. Per la verità, parlai e parlai da intronarle le orecchie.

Elizabeth depose la matita e alzò la testa per guardarlo.

— Qualche volta eravamo molto vicini, e qualche volta no. Io avevo sempre il terrore di perderla. E un giorno, poco prima che ci laureassimo, lei mi disse, con molto tatto: «Ed, perché non ti rilassi e non mi porti in qualche posto a bere qualcosa? potremmo ballare un po', e fare una corsa in macchina, e potremmo fermarci da qualche parte, senza parlare». Non so cosa mi prese — fece Hawks. — In un batter d'occhio, mi accorsi che non ero più innamorato di lei. E non l'avvicinai mai più.

«Perché, esattamente? Non lo so. Soltanto perché pensavo di essere così meraviglioso che era impossibile non ascoltarmi? Non credo. Sapevo di parlare spesso a vanvera. Sapevo che ben poco di quel che avevo da dire era originale o interessante. E non parlavo mai con altri che lei. Faticavo a sostenere una conversazione con gli altri. Ma io l'amavo, Elizabeth, e lei mi aveva detto che non voleva più starmi ad ascoltare, e così smisi di amarla. Fu come se si fosse trasformata in un cobra. Cominciai a tremare. Mi allontanai in tutta fretta, andai in camera mia… e me ne restai lì seduto, a tremare. Dovette passare un'ora, prima che mi calmassi.

«Lei cercò parecchie volte di mettersi in contatto con me. E qualche altra volta, poco mancò che andassi io a cercarla. Ma non servì a niente. Non ero più innamorato. E avevo paura… Una volta, durante la guerra, fui bloccato da un incendio in laboratorio, e riuscii a fuggire appena in tempo. Per qualche istante, fui convinto di essere sul punto di morire. Quella fu l'unica volta in cui provai la stessa paura… Oh, sì — disse. — Ho delle difficoltà, con le donne.»

— Forse hai semplicemente paura di morire.

L'espressione di Hawks divenne infinitamente remota: tutto cambiò, nell'atteggiamento del suo viso e del suo corpo. — Sì — disse. — È vero.

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