Algis Budrys - Il satellite proibito

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La fantascienza è l’unico genere letterario nel quale l’uomo sia direttamente e concretamente posto a confronto con l’infinito. In questo dato risiede il suo fascino principale: perchè dall’infinito emerge l'enigma, l’ignoto, l’incubo, ed il confronto si trasforma in una sfida. Questo romanzo di Algis Budrys (un autore che i lettori di «Futuro» hanno già avuto modo di apprezzare) ripropone uno dei temi più classici della narrativa fantascientifica: quello della minaccia nascosta in un mondo sconosciuto, del mistero che deve essere rivelato a rischio della vita. Il mondo che cela l’enigma, e dà corpo alla sfida, è il nostro satellite naturale: la Luna, che l’uomo ha appena sfiorata, e che cela nelle sue viscere un segreto mortale. Cosa si nasconde in fondo al labirinto dal quale nessun esploratore è mai uscito vivo? Quale intelligenza maligna ha potuto concepire una trappola cosi crudele e mostruosa? L’intelletto umano non possiede strutture adeguate a scandagliare un abisso così folle e contorto, anche perchè la «cosa» che si cela in fondo all’abisso è a sua volta al di là della follia e dell’assurdo. «Il satellite proibito» è il più originale e famoso tra i romanzi di Budrys.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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Finalmente si alzò, con le mani in tasca, dopo essere rimasto a lungo seduto senza dire una parola. — È tardi. Sarà meglio che vada.

Elizabeth alzò gli occhi dal suo lavoro. — Sei ancora occupato con quel tuo progetto?

Hawks sorrise, amaramente. — Credo di sì. Penso che tutte le persone che mi servono domani si presenteranno al lavoro.

— Qualcuno resta a casa, il sabato?

— Oh? Domani è sabato?

— Pensavo che alludessi a questo.

— No. No, non ci pensavo. E dopodomani sarà domenica.

Elizabeth inarcò le sopracciglia e disse, innocentemente: — Di solito è così.

— Cobey sarà sconvolto — stava dicendo Hawks, perduto nei suoi pensieri. — Dovrà pagare gli straordinari ai tecnici.

— Chi è Cobey?

— Un uomo, Elizabeth. Un altro uomo che conosco.

Lei lo accompagnò a casa, alla palazzina dai colori pastello, costruita verso la metà degli Anni Venti, dove Hawks aveva un appartamento molto funzionale.

— Non avevo mai visto dove abiti — disse lei, tirando il freno a mano.

— No — fece Hawks. Aveva il volto teso per la stanchezza. Rimase seduto, con il mento sul petto, le ginocchia contro il cruscotto. — È… — Indicò con la mano l'edificio dal tetto di tegole, i muri segnati da crepe che erano state intonacate e ridipinte con grandi pennellate di vernice, più fresca del colore originale. — È un posto.

— Non senti mai la nostalgia della campagna? Dei campi aperti? Dei boschi? Del cielo limpido?

— Non c'erano molti campi aperti — disse lui. — Erano quasi tutti allevamenti di pollame, e non si vedevano altro che pollai a uno o due piani. — Guardò fuori dal finestrino. — Pollai — ripeté, poi tornò a guardare Elizabeth. — Sai, i polli vanno spesso soggetti a malattie dell'apparato respiratorio. Sospirano e starnutano e russano, tutta la notte, a migliaia… un suono che incombe sui paesi, come il gemito di una folla lontana, desolata e piangente. I polli. Mi chiedevo se sapevano che cosa eravamo… perché li tenevamo nei recinti, li facevamo mangiare nei trogoli e bere ai rubinetti. Perché li proteggevamo dalla pioggia, e ci spezzavamo la schiena a portare loro il pastone. Perché ogni settimana entravamo nei loro pollai, e raschiavamo via il sudiciume e cercavamo di tenerli puliti il più possibile. Mi chiedevo se lo sapevano, e se era per questo che gemevano nel sonno. Ma naturalmente i polli sono di una stupidità abissale. Tra tutte le cose viventi di questo mondo, soltanto l'Uomo pensa come l'Uomo.

Aprì la portiera, si girò a mezzo per scendere, e poi si fermò. — Sai… Sai — ricominciò. — Parlo davvero moltissimo, quando siamo insieme. — La guardò con aria di scusa. — Dovrai essere annoiata a morte.

— Non mi dai fastidio.

Hawks scosse il capo. — Non riesco a capirti. — Le sorrise, gentilmente.

— Ti piacerebbe?

Lui sbatté le palpebre. — Sì. Moltissimo.

— Forse anch'io provo lo stesso, nei tuoi confronti?

Hawks sbatté le palpebre di nuovo. — Beh — disse. — Beh, l'ho sempre dato per scontato, no? Non ci avevo mai pensato. Davvero. — Scosse il capo. Disse, malinconicamente: — Soltanto l'Uomo pensa come l'Uomo. — Scese dalla macchina e si fermò a guardarla. — Sei stata molto buona con me stasera, Elizabeth. Grazie.

— Voglio che mi chiami ancora, appena puoi.

Improvvisamente, Hawks aggrottò la fronte. — Sì. Appena posso — disse con voce turbata. Chiuse la portiera e rimase a tambureggiare con le dita sul bordo del finestrino abbassato. — Sì — disse, con una smorfia. — Il tempo continua a passare — obiettò sottovoce. — Ti… ti chiamerò — le disse, e si avviò verso la palazzina, a testa bassa, le braccia penzoloni lungo i fianchi, le grosse mani che si aprivano e si chiudevano al ritmo dei passi, l'andatura un po' irregolare, in modo che passò da una parte del marciapiedi all'altra, prima di arrivare all'uscio per raggiungere l'appartamentino.

Finalmente riuscì ad aprire la porta. Si voltò indietro e agitò la mano, rigidamente, come se non fosse sicuro di avere davvero concluso la loro conversazione. Poi lasciò ricadere il braccio, e spinse l'uscio.

PARTE SETTIMA

Il giorno dopo, Barker si presentò al laboratorio con gli occhi arrossati. Le mani gli tremavano, mentre infilava le sottotute.

Hawks gli si avvicinò. — Sono lieto di vederla qui — disse impacciato.

Barker alzò gli occhi e non disse nulla.

Hawks proseguì: — È sicuro di sentirsi bene? Se no, possiamo rimandare a domani.

Barker ribatté: — La finisca di preoccuparsi per me.

Lo scienziato si mise le mani in tasca. — Bene. È stato a parlare con gli specialisti del percorso?

Barker annuì.

— È riuscito a dare loro un resoconto chiaro dei risultati di ieri?

— Sembravano felici. Perché non aspetta che abbiano rimuginato tutto a dovere e le mettano i rapporti sulla scrivania? Che cosa le importa di quello che trovo lassù, purché io continui ad avanzare, e non impazzisca? Non è giusto? A lei non importa quello che succede a me: non faccio altro che aprire una pista, in modo che i suoi bravi tecnici non inciampino in qualcosa quando saliranno per fare a pezzi la formazione, giusto? Perciò che cosa le interessa, a meno che perda me e debba trovarsi qualcun altro? Giusto? E come ci riuscirebbe? Per quanti individui pensa che Connington stia facendo piani? Non piani che portino qui, giusto? Quindi, perché non mi lascia in pace?

— Barker… — Hawks scosse il capo. — No, lasci perdere. Parlare non serve.

— Mi auguro che rimanga di questa idea.

Hawks sospirò. — Sta bene. C'è una cosa: questa storia continuerà giorno per giorno, ormai, se le condizioni astronomiche lo permetteranno. Continuerà fino a quando lei uscirà dall'altra parte della formazione. Una volta incominciato, sarà difficile perdere lo slancio. Ma se in qualunque momento vorrà interrompersi… prendersi un po' di riposo, lavorare sulle sue macchine da corsa, qualunque cosa… se sarà possibile glielo concederemo. Noi…

Barker raggricciò le labbra. — Hawks, io sono qui per fare qualcosa. Intendo farlo. È tutto ciò che voglio fare. Chiaro?

Hawks annuì. — Chiaro, Barker. — Si sfilò le mani dalle tasche. — Spero che non ci vorrà troppo tempo.

Hawks si avviò per il corridoio fino a quando arrivò alla sezione degli specialisti del percorso. Bussò ed entrò. Gli uomini alzarono la testa, poi tornarono a chinarsi sulla pianta a larga scala della formazione, che occupava un tavolo di cinque metri per cinque al centro della sala. Soltanto l'ufficiale della Guardia Costiera che era il responsabile si avvicinò a Hawks, mentre gli altri tracciavano pazientemente dei segni sul grande foglio di plastica, con gessetti rossi fissati all'estremità di lunghe bacchette. Uno di loro stava accanto a un registratore, con la testa inclinata, ascoltando la voce di Barker.

La voce era bassa, soffocata. — Ve l'ho detto ! — stava dicendo. — C'è una sorta di nuvola azzurra… e qualcosa che sembra muoversi all'interno. Ma non come se fosse qualcosa di vivo.

— Sì, lo sappiamo — rispose paziente la voce di un membro della squadra. — Ma a che distanza era dal punto in cui lei stava sulla collina di sabbia bianca? Quanti passi.

— È difficile dirlo. Sei o sette.

— Uh-uh. Ora, lei dice che era direttamente alla sua destra dalla parte in cui era voltato? Bene, allora, che cosa ha fatto?

— Ho camminato per circa due metri su questo cornicione, e ho svoltato a sinistra per seguirlo intorno a quella guglia rossa. Poi…

— Ha notato dov'era la nuvola azzurra, in relazione a lei, quando ha svoltato?

— Ho voltato indietro la testa, sulla destra.

— Capisco. Vuole girare la testa allo stesso modo adesso, in modo che possa farmene un'idea più chiara? Grazie. Circa dodici gradi dalla destra esatta. Ed era ancora a sei o sette passi di distanza in linea d'aria?

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