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Algis Budrys: Il satellite proibito

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Algis Budrys Il satellite proibito

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La fantascienza è l’unico genere letterario nel quale l’uomo sia direttamente e concretamente posto a confronto con l’infinito. In questo dato risiede il suo fascino principale: perchè dall’infinito emerge l'enigma, l’ignoto, l’incubo, ed il confronto si trasforma in una sfida. Questo romanzo di Algis Budrys (un autore che i lettori di «Futuro» hanno già avuto modo di apprezzare) ripropone uno dei temi più classici della narrativa fantascientifica: quello della minaccia nascosta in un mondo sconosciuto, del mistero che deve essere rivelato a rischio della vita. Il mondo che cela l’enigma, e dà corpo alla sfida, è il nostro satellite naturale: la Luna, che l’uomo ha appena sfiorata, e che cela nelle sue viscere un segreto mortale. Cosa si nasconde in fondo al labirinto dal quale nessun esploratore è mai uscito vivo? Quale intelligenza maligna ha potuto concepire una trappola cosi crudele e mostruosa? L’intelletto umano non possiede strutture adeguate a scandagliare un abisso così folle e contorto, anche perchè la «cosa» che si cela in fondo all’abisso è a sua volta al di là della follia e dell’assurdo. «Il satellite proibito» è il più originale e famoso tra i romanzi di Budrys. Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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Algis Budrys

Il satellite proibito

PARTE PRIMA

1

Tre uomini stavano seduti in una stanza.

Edward Hawks, dottore in scienze, teneva appoggiato il lungo mento sulle grosse mani, e stava proteso, aggobbito, con i gomiti aguzzi puntellati sul piano della scrivania. Era un uomo dinoccolato, con i capelli neri e la carnagione pallida, che raramente usciva al sole. In confronto ai suoi assistenti giovani e abbronzati, dava l'impressione di uno spaventapasseri. E adesso stava scrutando un giovane seduto sulla sedia di fronte a lui.

Quest'ultimo lo fissava senza battere le palpebre. I capelli tagliati a spazzola erano così madidi di sudore che si appiccicavano alla cute. I lineamenti erano regolari, l'incarnato chiaro e sarto, ma aveva il mento bagnato di saliva. — Buio… — disse con voce querula. — Buio, e non c'erano stelle… — All'improvviso la voce si spense in un borbottìo, ma il giovane continuò a lamentarsi.

Hawks guardò alla sua destra.

Weston, lo psicologo assunto da poco, stava seduto su una poltrona che aveva fatto portar giù nell'ufficio di Hawks. Come questi, aveva passato da poco la quarantina. Ma mentre il primo era scarno, Weston era grassoccio: era molto controllato e urbano, dietro gli occhiali dalla montatura nera e, adesso, era un po' spazientito. Ricambiò lo sguardo di Hawks aggrottando leggermente la fronte e inarcò un sopracciglio.

— È impazzito — gli disse Hawks, con uno stupore quasi infantile.

Weston accavallò le gambe. — Gliel'avevo detto, dottor Hawks; gliel'avevo detto nel momento stesso in cui lo abbiamo tirato fuori da quel suo apparecchio. Ciò che gli è accaduto è stato troppo, per lui.

— Lo so, che lei me l'aveva detto — ribatté in tono mite Hawks. — Ma sono responsabile di questo giovane. Devo accertarmi. — Fece per girarsi di nuovo verso il malato; poi tornò a guardare Weston. — Era giovane. Sano. Eccezionalmente stabile e adattabile, me l'aveva detto lei. E aveva l'aria di esserlo — Hawks aggiunse, lentamente: — Era molto intelligente.

— Io avevo detto che era stabile — si affrettò a spiegare Weston. — Non che lo era sovrumanamente. Le avevo detto che era un eccezionale esemplare d'essere umano. È stato lei a mandarlo in un posto dove nessun essere umano dovrebbe mai andare.

Hawks annuì. — Ha ragione, naturalmente. È stata colpa mia.

— Beh, ecco — continuò in fretta Weston. — Si era offerto volontario. Sapeva che era pericoloso. Sapeva che avrebbe corso il rischio di morire.

Ma Hawks non gli dava più ascolto. Guardava fisso, di nuovo, oltre la scrivania.

— Rogan? — chiamò sottovoce — Rogan?

Attese, osservando le labbra di Rogan che si muovevano quasi silenziosamente. Poi sospirò e chiese a Weston: — Può fare qualcosa per lui?

— Guarirlo — disse l'altro, in tono sicuro. — Con l'elettroshock. Dimenticherà quello che gli è accaduto in quel luogo. Guarirà.

— Non sapevo che l'amnesia da elettroshock fosse permanente.

Weston guardò Hawks, sbattendo le palpebre. — Naturalmente, può darsi che di tanto in tanto abbia bisogno di una ripetizione del trattamento.

— A intervalli, per tutto il resto della sua vita.

— Non sempre è così.

— Ma spesso.

— Beh, sì…

— Rogan — stava mormorando Hawks. — Rogan, mi dispiace.

— Buio… buio… Mi faceva male ed era così freddo… così silenzioso che potevo udire me stesso…

Edward Hawks, dottore in scienze, camminava solo, attraverso il laboratorio principale, con le mani abbandonate lungo i fianchi. Scelse il percorso tra i generatori e i banchi, senza alzare lo sguardo, e si fermò ai piedi della piattaforma ricevente del trasmettitore di materia.

Il laboratorio principale occupava parecchie migliaia di metri quadrati nei sotterranei della Divisione Ricerche della Continental Electronics. Un anno prima, quando Hawks aveva progettato il trasmettitore, parte del pianterreno e del primo piano sovrastanti erano stati sventrati, e adesso l'apparecchio torreggiava sin quasi a sfiorare il soffitto, contro la parete di fondo. Erano state costruite passerelle aeree e gallerie per dare accesso agli strumenti che coprivano le pareti. Dozzine d'uomini dello staff di Hawks si stavano ancora aggirando, effettuando gli ultimi controlli prima di chiudere per quel giorno. Le loro ombre sulle passerelle, che di tanto in tanto oscuravano la luce di qualche lampada, screziavano il pavimento di mobili chiazze nere.

Hawks si fermò, alzando la testa verso il trasmettitore, con un'espressione perplessa. All'improvviso qualcuno chiamò — Ed! — ed egli girò la testa di scatto.

— Ciao, Sam. — Sam Latourette, il suo assistente capo, si era avvicinato in silenzio. Era un uomo dall'ossatura massiccia, la pelle floscia e sottile come carta, e gli occhi infossati cerchiati di scuro. Hawks gli sorrise fiaccamente. — L'equipaggio del trasmettitore ha appena finito l'autopsia, vero?

— Troverai i rapporti domattina sulla tua scrivania. Il macchinario non aveva niente che non andasse. Niente di niente. — Latourette attese, nella speranza che Hawks desse segno di qualche interesse, ma quello si limitò ad annuire. S'era appoggiato con una mano a una travatura verticale e scrutava la piattaforma ricevente. Latourette gridò: — Ed!

— Sì, Sam?

— Piantala. Ti stai tormentando troppo. — Attese di nuovo una reazione qualunque, ma Hawks si limitò a sorridere alla macchina, e Latourette esplose: — A chi credi di darla a intendere? Da quanto tempo lavoro con te? Dieci anni? Chi mi ha offerto il mio primo impiego? Chi mi ha insegnato tutto? Puoi darla a bere a chiunque altro, ma non a me ! — Latourette contrasse il pugno, stringendo le dita vuote. — Io ti conosco bene! Ma… accidenti, Ed, non è colpa tua, quella cosa lassù! Che cosa pretendi… che non capiti mai niente a nessuno? Che cosa vuoi… un mondo perfetto?

Hawks sorrise di nuovo, allo stesso modo. — Abbiamo aperto un varco dove non c'era mai stato — disse, accennando con il capo ai macchinari. — In un muro che non abbiamo costruito noi. La chiamano indagine scientifica. E poi mandiamo degli uomini, attraverso quel varco. È l'avventura umana. E qualcosa dall'altra parte… qualcosa che non aveva mai dato fastidio all'umanità, che prima non ci aveva mai fatto del male, non ci aveva mai allarmati con la certezza della sua presenza… li uccide. In modi terribili che noi non possiamo capire, li uccide. Perciò io continuo a mandare altri uomini. Questo come si chiama, Sam?

— Ed, ma noi facciamo veramente dei progressi. Questo criterio nuovo costituirà la soluzione.

Hawks rivolse a Latourette un'occhiata curiosa.

L'altro continuò, impacciato. — Non appena avremo eliminato gli inconvenienti. Non occorre altro. Così la spunteremo, Ed… ne sono certo.

Hawks non cambiò espressione, non distolse il volto. Premeva le punte delle dita contro la verniciatura grigia della macchina. — Vuoi dire… che non li uccidiamo più? Che adesso ci limitiamo a farli impazzire?

— Tutto quello che dobbiamo fare, Ed — insistette l'altro — tutto quello che dobbiamo fare è trovare un sistema migliore per attenuare il trauma quando l'uomo si sente morire. Dosi maggiori di sedativi. Qualcosa del genere.

Hawks disse: — Comunque, debbono andare egualmente lassù. Come ci vadano non fa differenza: quello che c'è là non li tollera. Non è stato creato per avere a che fare con gli esseri umani. Non è stato fatto perché la mente umana lo misurasse in termini umani. Dobbiamo ideare un linguaggio nuovo per descriverlo, e un nuovo modo di pensare per poterlo capire. Solo quando l'avremo finalmente fatto a pezzi, qualunque cosa esso sia, e l'avremo visto e sentito e toccato e assaporato in tutte le sue parti, saremo in grado di dire cosa può essere. E ciò avverrà soltanto dopo che avremo finito: perciò, che beneficio arrecheranno le nostre nuove conoscenze agli uomini che debbono morire adesso? Qualunque cosa l'abbia messo lì per qualunque ragione, nessun essere umano sarà mai in grado di viverci dentro, fino a quando altri esseri umani non l'avranno attraversato da vivi. Come riuscirai a descriverlo in un inglese chiaro, in modo che possa capirlo un uomo sano di mente? Abbiamo a che fare con qualcosa di mostruoso. In un certo senso, dovremo pensare anche noi come mostri, oppure rinunciare a occuparcene, e lasciare che rimanga lì sulla Luna, senza che nessuno ne sappia il perché.

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