Stanislaw Lem - Cyberiade
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- Название:Cyberiade
- Автор:
- Издательство:Marcos y Marcos
- Жанр:
- Год:2003
- Город:Milano
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Di conseguenza, i sudditi di Ferocitus dovevano, per il loro bene, andare in giro gridando che tutto era meraviglioso; il vecchio, indefinito saluto «Salve» era stato cambiato dal Re nel più entusiastico «Alleluia!» anche se ai minori di quattordici anni era ancora permesso dire «Che cuccagna!» e «Ullallà!» e ai vecchi «Quale piacere!» Ferocitus godeva nel constatare che lo spirito della popolazione era così alto. Ogni volta che arrivava sulla sua auto a forma di nave da battaglia, la gente che lo vedeva applaudiva, e quando sollevava graziosamente la sua mano regale, la prima fila gridava: «Urrah!» e «Alleluia!» e «Grande!»
In cuor suo un democratico, gli piaceva fermarsi a scambiare quattro parole con i vecchi soldati che molto avevano visto e molto combattuto, amava ascoltare le storie che si raccontavano ai bivacchi e che vertevano sulle imprese più ardimentose, e spesso, quando un dignitario straniero si presentava a un’udienza, tutt’a un tratto, tra il lusco e il brusco, gli batteva lo scettro sul ginocchio e urlava: «Issate quelle cime!» o «Ammainate la scotta!» o «Tuoni e fulmini!» e non c’era nulla che apprezzasse tanto — o che avesse tanto a cuore — quanto l’ardire e il non ordire, l’azzardo e le decisioni al primo sguardo, la vita dura e l’assenza di paura, l’assalto di slancio e il profumo del rancio, la galletta e il grog, il gavettone e la polvere da cannone.
Così, ogni volta che si sentiva prendere dalle paturnie, per vincere la melanconia gli era sufficiente far sfilare i soldati sotto il suo balcone, e ascoltare le allegre marcette con cui scandivano il passo, come: «Avvita forte il tuo coraggio / Sia robusto il suo bullone davanti al nemico» e «Su col morale / Garrisce la bandiera e Saldi e pugnaci; combatteremo / Fino allo stremo, sempre più audaci» per poi concludere con il trascinante inno nazionale: «Calcio in spalla, occhio al mirino». E aveva già dato ordine, per il giorno del suo funerale, che i veterani della sua guardia cantassero sulla sua tomba il suo inno preferito: «I vecchi robot non arrugginiscono mai».
Klapaucius non arrivò immediatamente alla corte di questo grande sovrano. Nel primo villaggio in cui ebbe la ventura di trovarsi, bussò a parecchie porte, ma nessuno gli aprì. Alla fine notò, nella strada deserta, un bambino di pochi anni; questi si avvicinò a lui e gli chiese, con voce flebile e acuta: «Me ne compri uno, signore? Costano poco».
«Che cosa vendi?» chiese Klapaucius, sorpreso.
«Segreti di stato» rispose il piccolo, sollevando la camiciola quel tanto che permise a Klapaucius di vedere, sotto di essa, un fascicolo dei piani di mobilitazione. Ancor più sorpreso, Klapaucius disse: «No, grazie, piccolo. Piuttosto, puoi dirmi dove posso trovare il sindaco?»
«Che cosa vuoi dal sindaco, signore?» chiese il bambino.
«Gli devo parlare».
«In segreto?»
«Non fa differenza» rispose Klapaucius.
«Ti serve un agente segreto? Mio padre fa l’agente segreto. Fidatissimo. Molto economico».
«Bene. Allora, portami da tuo padre» rispose Klapaucius, il quale aveva capito che non sarebbe approdato a niente, con quel piccolo spacciatore di segreti.
Il bambino lo portò fino a una casa. All’interno, anche se era appena primo pomeriggio, c’era una famiglia raccolta attorno a una lampada accesa: il nonno ormai grigio, seduto sulla sedia a rotelle, la nonna intenta a fare la calza, e la loro progenie — numerosa e ormai adulta — indaffarata in tanti lavori domestici. Non appena Klapaucius entrò, gli balzarono addosso e lo bloccarono; gli aghi da calza risultarono essere un paio di manette, la lampada un microfono, la nonna era il Capo della Polizia.
«Devono avere commesso un errore» pensò Klapaucius, quando lo percossero e lo cacciarono in prigione. Pazientemente, attese per tutta la notte — non poté fare altro. Giunse infine l’alba, che illuminò le ragnatele sulle pareti della cella e i resti arrugginiti dei precedenti prigionieri. Dopo qualche tempo vennero a prenderlo per interrogarlo. Risultò che tanto il bambino quanto la casa — anzi, in effetti l’intero villaggio — erano soltanto una sofisticata esca per ingannare le spie straniere.
Klapaucius, comunque, non dovette affrontare i rigori di un lungo processo: la seduta arrivò rapidamente alla conclusione. Per il tentativo di prendere contatto con il padre-informatore c’era il ghigliottinamento di terza classe, perché gli amministratori locali avevano terminato, per l’anno fiscale corrente, i fondi destinati a far cambiare bandiera agli agenti nemici, e Klapaucius, da parte sua, s’era rifiutato di contribuire al fondo acquistando dalla polizia qualche opportuno segreto di stato. Né aveva con sé denaro sufficiente a far derubricare il reato.
Tuttavia, poiché il prigioniero continuava a protestare la propria innocenza — non che il giudice gli credesse; del resto, la cosa non aveva importanza, perché la sua autorità non arrivava fino al punto di poterne ordinare la scarcerazione — il caso venne trasmesso a una corte di grado superiore, e nel frattempo Klapaucius venne sottoposto a tortura, più per ragioni di forma, a dire il vero, che per reale necessità.
In circa una settimana, però, il suo caso prese un andamento positivo; finalmente prosciolto, si recò nella capitale, dove — dopo essere stato istruito sulle leggi e i regolamenti dell’etichetta di corte — ebbe l’onore di un’udienza privata con il Re. Lo dotarono anche di una cornetta, perché ciascun cittadino era tenuto ad annunciare il suo arrivo e la sua partenza dai luoghi pubblici con i regolamentari squilli di tromba, e tale era la ferrea disciplina del paese che il sole non si considerava ufficialmente sorto finché il trombettiere non suonava la sveglia.
Ferocitus, come previsto, chiese nuove armi, e Klapaucius gli promise di esaudire la sua regale richiesta: il suo piano, assicurò al Re, rappresentava un radicale progresso rispetto ai comuni principi dell’azione militare.
Che tipo di esercito — chiese per prima cosa — usciva invariabilmente vittorioso dallo scontro? Quello che aveva i capi migliori e i soldati più disciplinati. Il capo dava gli ordini, il soldato li eseguiva: il primo doveva essere saggio, il secondo obbediente.
Tuttavia, la saggezza della mente — anche della mente militare — aveva taluni limiti naturali. Inoltre, un grande capo poteva incappare, come nemico, in un altro capo altrettanto grande. O poteva cadere in battaglia e lasciare prive di guida le sue legioni. Oppure poteva compiere qualcosa di altrettanto temibile, dato che il militare era, per così dire, professionalmente addestrato a pensare, e l’obiettivo dei suoi pensieri era il potere.
Non era pericoloso avere in campo una legione di vecchi generali, con le teste arrugginite così piene di strategia e di tattica da spingerli ad aspirare al trono? Forse che per questa loro tendenza, parecchi regni non se l’erano vista brutta? Era chiaro, dunque, che i capi erano un male, purtroppo necessario; il problema stava nel renderlo un male non più necessario. Proseguendo, la disciplina di un esercito consisteva nell’eseguire con precisione gli ordini. Idealmente, si doveva arrivare al punto di avere mille cuori e mille teste fuse in un solo cuore, una sola mente, una sola volontà. La vita militare, con le sue corvè, le marce, le esercitazioni e le manovre serviva a questo. La meta ultima era dunque un esercito che agisse alla lettera come un sol uomo, che fosse nello stesso tempo il creatore e l’esecutore dei propri obiettivi.
Ma dove si poteva trovare incarnata una simile perfezione? Solo nell’individuo, perché a nessuno si obbediva così facilmente come a se stessi, e nessuno eseguiva così allegramente gli ordini come chi li dava. Né un individuo poteva disertare da se stesso, e l’insubordinazione o l’ammutinamento contro se stesso erano palesemente impossibili.
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