Stanislaw Lem - Cyberiade
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- Название:Cyberiade
- Автор:
- Издательство:Marcos y Marcos
- Жанр:
- Год:2003
- Город:Milano
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Da allora in poi, la civiltà procedette a balzi di cinquantamila anni di pace: da quegli esseri — i primi veramente intelligenti — aveva avuto origine lo stesso Trurl. La storia venne simulata ed espulsa dalla macchina bobina dopo bobina, e la fila delle bobine era così lunga che occorreva salire in cima alla macchina per vederne la fine. E tutto questo per fare un singolo poeta! Però, è così che opera il fanatismo scientifico.
Alla fine il programma fu pronto; rimaneva soltanto da scegliere una successione casuale di avvenimenti e da scartare gli altri, sennò l’istruzione del poeta elettronico sarebbe durata milioni di anni.
Nelle due settimane seguenti, Trurl cominciò a dare istruzioni generali al suo futuro poeta, poi aggiunse i circuiti logici, i motivatori emozionali, i centri semantici. Stava quasi per invitare Klapaucius ad assistere al collaudo della macchina, ma al pensiero della sua lingua velenosa cambiò subito idea e preferì eseguire da solo la prova.
Avviò la macchina, e quella si diede subito a impartirgli una lezione sulla lucidatura delle superfici cristallografiche destinate alla fotoincisione come preliminare per lo studio delle anomalie magnetiche submolecolari.
Allora Trurl escluse una buona metà dei circuiti logici e rese più elettromotrici le emozioni. La macchina singhiozzò, venne presa da un attacco isterico, e alla fine commentò, con voce rotta, che il mondo era crudele, oh quanto era crudele.
A quel punto, Trurl intensificò i campi semantici e rafforzò le componenti di carattere; la macchina lo informò subito che lui, da quel momento in poi, doveva eseguire ogni suo desiderio, a cominciare da quello di aggiungere sei piani ai nove di cui era costituita, perché le occorrevano per meditare sul significato dell’essere.
Trurl, al posto dei piani richiesti, installò uno smorzatore filosofico. La macchina tacque e gli fece il muso: solo dopo molte suppliche e dopo un numero ancor superiore di promesse il costruttore riuscì a farle recitare qualcosa:
«La vispa Annunziata
Avea tra l’erbetta
Al balzo acchiappata Gentil ranocchietta».
A quanto pareva, ciò costituiva tutto il suo repertorio. Trurl aveva regolato, modulato, implorato, scollegato, esaminato, ricollegato, calibrato, fatto tutto quello che gli era venuto in mente, e la macchina gli aveva recitato una poesia che lo aveva spinto a ringraziare il Cielo che non ci fosse Klapaucius a ridere di lui — immaginatevi, simulare l’intero universo da zero, per non parlare della Civiltà, considerata in tutti i suoi particolari, e finire con una poesiola da asilo infantile!
Trurl inserì una batteria di sei filtri anti-cliché, ma schiattarono come fiammiferi; fu costretto a farli di acciaio al tungsteno. I nuovi filtri, comunque, parvero funzionare: Trurl portò a fine corsa superiore il livello semantico, inserì in parallelo un secondo generatore di rime… ma la somma di questi due interventi rischiò di rovinare tutto, perché la macchina, alla ricerca del supremo significato da dare alla propria esistenza, risolse di farsi missionario fra le tribù sottosviluppate dei pianeti più lontani.
All’ultimo minuto, comunque, Trurl ebbe un’ispirazione; rinunciando a tutti i circuiti logici, li sostituì con altrettanti narcisistori egocentrici ad auto-regolazione. La macchina fece qualche smorfia, piagnucolò un poco, rise con amarezza, si lamentò di certi terribili dolori che aveva da qualche tempo al terzo piano, disse che in generale ne aveva le tasche,piene, perché la vita era bella, ma gli uomini erano certe bestie, e che avrebbero pianto — oh come avrebbero pianto! — una volta che lei fosse morta e non ci fosse stata più. Poi chiese carta e penna.
Con un sospiro di sollievo, Trurl spense la sua creatura e andò a dormire.
L’indomani, si recò a trovare Klapaucius, il quale, come udì l’invito a presenziare al debutto del cantore elettronico di Trurl, mollò immediatamente tutto quello che stava facendo e lo seguì — tale era la sua ansia di presenziare allo smacco dell’amico e collega.
Per prima cosa, Trurl fece in modo che la macchina si riscaldasse bene, tenne basso il volume, corse varie volte sulle scalette di metallo per effettuare le progressive letture (la macchina era come i motori dei grandi transatlantici: c’erano file e file di chiodature a tenere ferme le lamiere, passatoie per gli addetti, quadri di controllo e valvole a ogni piano) finché, ormai certo che tutte le cifre decimali fossero al posto giusto, disse: sì, adesso la macchina è pronta, perché non partire con qualcosa di semplice? Più tardi, naturalmente, una volta che la macchina avesse preso la mano a poetare, Klapaucius avrebbe potuto chiederle di comporre poesie su qualsiasi argomento.
Ora che i potenziometri indicavano come le capacità liriche della macchina fossero al massimo della carica, Trurl, talmente nervoso che gli tremavano le mani, abbassò l’interruttore principale.
Una voce, leggermente roca, ma assai vibrante e calda, disse:
«Flogisticosh.
Rhomotbriglosh.
Floosh».
«Tutto qui?» domandò Klapaucius, con grande educazione, dopo una breve pausa. Trurl si morse le labbra, diede alla macchina qualche rapida smanettata di corrente, e provò ancora. Questa volta la voce si udì ancor più chiara; era ancora calda e baritonale, severa ma stranamente sensuale:
«Uno, ventuno, dodici, quaranta,
Diciannove, trentun, cinquantatré
Trentasette, quattordici, novanta,
Sette, sei, nove, quattro, ventitré».
«C’è forse qualcosa che mi sfugge?» chiese Klapaucius, mentre osservava con calma Trurl in preda al panico tirare come un forsennato le leve dei comandi.
Dopo un po’, Trurl agitò disperatamente le braccia, scese con sordo rumore metallico parecchie rampe di scalini di ferro, si mise carponi ed entrò nella macchina passando per una botola; una volta all’interno, cominciò a dare martellate, bestemmiando come un carrettiere, strinse qualche vite, staccò qualche spina, uscì dalla botola e salì in fretta al piano superiore.
Alla fine, con un grido trionfale, gettò via un tubo elettronico bruciato, che si ruppe in mille pezzi ai piedi di Klapaucius. Trurl non si scusò della propria maleducazione; si affrettò a sostituire il tubo, si asciugò le mani su uno straccio sporco d’olio e gridò a Klapaucius di provarci adesso. Si udirono le seguenti parole:
«Moccio! Di tua felce maniglia
Blocco di tre su Galàdia.
Moccio, qual silfo ti piglia,
Mentre sogni nella tua madia?»
«Be’ questo è già un miglioramento!» gridò Trurl, non del tutto convinto. «In particolare l’ultimo verso, non credi?» «Se non hai altro da mostrarmi…» cominciò Klapaucius, che sembrava l’incarnazione della cortesia.
«Maledizione!» imprecò Trurl, sparendo di nuovo all’interno della macchina. Lo si udì martellare furiosamente, si sentirono lo sfrigolio dei corti circuiti e le imprecazioni di qualcuno con la pazienza ancor più corta; infine Trurl si sporse dalla botola del terzo piano e gridò: «Prova adesso!»
Klapaucius ubbidì. Il bardo elettronico fremette da capo a piè e attaccò:
«Spesso in quella capanna insalda e odora,
Dove cercammo appalesarsi il muschio,
E tu cantando trasmutavi l’ora…»
Trurl strappò alcuni cavi, e, all’interno della macchina, un volano prese a ruotare sempre più lentamente, fino a fermarsi; la voce tacque. Klapaucius rideva così forte che era stato costretto a sedersi per terra. Poi, all’improvviso, mentre Trurl andava freneticamente su e giù per le scalette, si sentirono uno scatto, un crepitio, e la macchina disse, con perfetta padronanza dei suoi mezzi espressivi:
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