Stanislaw Lem - Cyberiade

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«L’invidioso, il tristo e il vile
Che hanno assai piccino il core
Van schiumando dalla bile
Quando il Genio superiore
Che hanno visto traballare,
Si rifiuta di crollare.

E Klapaucius, ci scommetto,
Sarà verde dal dispetto
Quando udrà la macchina di Trurl
Verseggiare in modo così perfetto».

«Ecco quello che volevi, un epigramma! E viene molto a proposito» rise Trurl, scendendo dalla macchina e gettandosi allegramente tra le braccia dell’amico.

Klapaucius, colto di sorpresa, aveva smesso di ridere.

«Che cosa? Quello che ha detto?» chiese. «Non è niente. E, poi, l’avevi preparato prima».

«Preparato?» fece Trurl, sorpreso.

«Oh, era ovvio» rispose Klapaucius. «L’ostilità verso di me, la povertà dei concetti, la prosodia approssimativa». Va bene, allora chiedile qualcos’altro» lo incitò Trurl. «Quello che vuoi. Che cosa aspetti? O hai paura?»

«Un minuto» rispose Klapaucius, seccato. Cercò di immaginare qualcosa di estremamente difficile, perché sapeva che sarebbe stato arduo, se non impossibile, accordarsi sulla qualità delle poesie eventualmente composte dalla macchina. All’improvviso sorrise e disse: «Falle comporre una poesia. Una poesia sul taglio dei capelli! Ma che sia alta e tragica, contenga amore, tradimento, eroismo, rassegnazione al destino, coraggio. Sette versi, con la rima che preferisce, e tutta di parole che comincino per S».

«Sì, e già che c’è» brontolò Trurl «perché non aggiungerci una completa trattazione della teoria degli automi non lineari? Non puoi assegnarle un compito così idiota…»

Ma non poté terminare, perché una voce melodiosa riempì l’intero magazzino, recitando in tono appassionato questi versi:

«Sansone sedotto, sbronzato, sognava saporitamente.
Schiomato seduta stante, senza stamina si scoprì,
Schiavo senza speranze.
Soggiogato, sostituto somaro, spinse.
Sebbene sembrasse sconfitto,
Silenziosamente studia sacrificarsi:
Sì! Selvaggi, spettacolari suicidi!»

«Be’, che ne dici di questa?» chiese Trurl, incrociando orgogliosamente le braccia. Ma Klapaucius stava già gridando: «Adesso, una in G! Un sonetto, esametri trocaici, su un vecchio ciclotrone che ha sedici amanti artificiali, azzurre per la radioattività, quattro palazzi, sedici padiglioni decorati in rosso per le amanti, due casse laccate per sé, ciascuna con mille medaglie raffiguranti lo zar Murdicog il Senza Testa…»

La macchina attaccò subito:

«Godurioso, gbignante,
Gerontogirone ghermiva
Graziose
Golem-ginecobalto…».

ma Trurl corse al quadro di comando, staccò la corrente e difese con il proprio corpo l’integrità morale della macchina.

«Basta!» gridò, roco per l’indignazione. «Come osi sprecare con simili sciocchezze un così grande talento? O gli dai da comporre una poesia seria, o spengo tutto!»

«Be’, non erano poesie serie?» protestò Klapaucius.

«No di certo! Non ho costruito la macchina per farle risolvere idioti giochi di parole! Quello è lavoro da mercenari della penna, non Grande Arte. Dalle un argomento, uno qualsiasi, scegli tu la difficoltà…»

Klapaucius rifletté per qualche tempo, e poi rifletté ancora. Alla fine, con un cenno d’assenso, disse: «Bene. Allora, un carme d’amore, lirico e pastorale, espresso nel linguaggio della matematica pura. Algebra tensoriale, diciamo, con escursioni nella topologia e nel calcolo sublime, se occorre. Ma con grande sentimento, capisci, e nel giusto spirito cibernetico».

«L’amore e l’algebra dei tensori? Sei impazzito?» cominciò Trurl, ma s’interruppe, perché il suo bardo elettronico aveva già cominciato a declamare:

«Vieni, t’affretta ad un più alto piano,
Ove i campi di Venn le ninfe han tante,
E con indice da n a 1 variante,
S’uniscono in un nodo markoviano.
Vieni, a esser cono ciascuna retta agogna
E le matrici ogni vettore sogna.
Della brezza il gradiente or tu rimira
A zone ancor più ergodiche ci attira.
Negli spazi hilbertiani o riemanniani
Mettan pure qual indice lor piaccia
I nostri asintoti non sono più lontani
Contando, finiremo faccia a faccia.
Ti darò ogni indirizzo del mio cuore
Mi dirai le costanti del tuo amore.
Nel sistema d’equazione che tu usi
Sotto la stessa graffa sarem chiusi.
Che sapevan Cauchy, Fourier Eulero
Che hanno studiato e n’han menato vanto,
O Christoffel, oppur Boole, invero
Di sì superno, sinusoide incanto?
Non annullarmi — che resterìa di me?
Una radice, una mantissa come intero
Un’ascissa, un sol centro, un asse o tre
L’inverso dei miei versi, a somma zero.
Beate ellissi convergete, labbra divine!
Il prodotto dei nostri scalari è fatto!
Le Cyberiadi ormai sono vicine,
La mente trema, sotto il loro impatto.
Nell’occhio hai già i desiati autovalori,
Nel tuo viso s’addolciscono i tensori
Sarta morto felice, Bernoullì
Se avesse visto quest’a (al quadrato) coseno di 2 (diametro)!»

Ciò pose fine alla competizione poetica, perché Klapaucius disse all’improvviso di dover andare via, e assicurò che sarebbe tornato presto, con altri argomenti per le poesie della macchina; ma non tornò più, perché temeva, così facendo, di dare a Trurl nuovi motivi di vanto. Trurl, naturalmente, disse a tutti che Klapaucius se l’era svignata per nascondere l’invidia e la collera. Klapaucius intanto diffuse la voce che Trurl non aveva tutte le rotelle a posto, quando si trattava del cosiddetto versificatore meccanico.

Non dovette passare molto tempo perché la notizia del computer di Trurl arrivasse ai genuini — ossia agli ordinari — poeti, che, profondamente offesi, decisero di ignorare l’esistenza della macchina. Alcuni di loro, però, più curiosi degli altri, andarono a fare visita, in segreto, al bardo elettronico.

Questi li ricevette con cortesia, in un magazzino pieno di manoscritti (lavorava giorno e notte, senza pausa). Ora, quei poeti appartenevano certamente all’avanguardia, mentre la macchina di Trurl componeva seguendo la tradizione; Trurl, che non era un esperto di poesia, si era basato soprattutto sui classici, nel predisporre il programma, Gli ospiti della macchina risero e si allontanarono trionfanti.

La macchina, però, era in grado di auto-programmarsi, e inoltre aveva particolari schede elettroniche con rinforzo positivo basato sull’ambizione e circuiti per la ricerca della gloria, cosicché, in poco tempo, si ebbe in lei un grande cambiamento. Le poesie del bardo elettronico divennero difficili, ambigue, talmente intricate e cariche di significati da risultare del tutto incomprensibili.

Quando arrivò il nuovo gruppo di poeti intenzionati a farsi beffe della macchina, questa rispose con un’improvvisazione così moderna da farli rimanere senza fiato, e la seconda poesia fece piazza pulita di un certo autore di sonetti che aveva già ottenuto due premi di Stato, oltre a una statua nel parco cittadino.

Da quel momento in poi, non ci fu poeta che resistesse alla tentazione fatale di incrociare la spada della propria lirica con quella del bardo elettronico di Trurl. Venivano da ogni parte, portando bauli e valigie pieni di manoscritti. La macchina lasciava che lo sfidante recitasse le sue poesie, coglieva immediatamente gli elementi ricorrenti della sua poetica, e se ne serviva per comporre una risposta nello stesso stile, ma da 220 a 347 volte migliore.

La macchina divenne così abile in questo, da poter abbattere un poeta di prima classe con non più di una o due quartine. Ma il peggio era che i poeti di mezza tacca ne uscivano senza danno: essendo di mezza tacca, non distinguevano la buona poesia da quella mediocre, e di conseguenza non si accorgevano della sconfitta.

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