Stanislaw Lem - Cyberiade

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«Mi è successo troppe volte perché non prendessi adeguate misure. Ormai da dodici anni, ogni costruttore che non riesce a soddisfare le mie richieste, che promette più di quanto non riesca a dare, riceve il suo premio, certo, ma viene poi gettato — premio e tutto — in quel pozzo profondo, a meno che non sia abbastanza sportivo da partecipare di persona alla caccia, ma nella parte della preda. Nel qual caso, signori, non uso altre armi che le nude mani…»

«E… e sono stati tanti, i deprecabili impostori di quel genere?» chiese Trurl, con un groppo alla gola.

«Tanti? Non saprei dire» rispose Re Krool. «So solo che finora nessuno è riuscito a soddisfarmi, e le grida di terrore che si lasciano sfuggire mentre cadono in fondo al pozzo durano meno di una volta… senza dubbio perché i loro resti si stanno già accumulando. Vi assicuro, però, miei signori, che c’è ancora abbastanza posto… anche per voi!»

A queste minacciose parole fece seguito un silenzio mortale; i due amici non poterono far altro che guardare in direzione del foro atro e minaccioso. Il Re riprese a passeggiare nervosamente: quando colpivano il pavimento, i suoi stivali risuonavano come magli in una camera ecoica. «Ma, con il permesso di Vostra Altezza… voglio dire, noi — noi non abbiamo ancora firmato nessun contratto…» balbettò Trurl. «Non potremmo avere un paio d’ore per considerare la situazione, per soppesare esattamente quello che Vostra Altezza ha avuto la condiscendenza di dirci, e poi, naturalmente, decidere se accettare la generosa offerta, o se invece non sia il caso di…»

«Ah!» rise il Re (e fu come il tuono tra due nubi temporalesche). «O se invece non sia il caso di tornarvene a casa? Temo proprio di no, miei signori! Nel momento in cui avete messo piede sull’Infernanda, avete accettato la mia offerta! Se ogni costruttore venuto qui potesse andarsene quando meglio preferisce, dovrei aspettare in eterno, prima di veder realizzati i miei desideri. No, dovrete rimanere e costruirmi una bestia che io possa cacciare. Avete dodici giorni, e ora potete andare. Nel frattempo, qualunque piacere da voi desiderato sarà vostro. Non avrete che da chiederlo ai servitori che vi ho assegnato; non vi sarà negato nulla! Ci vediamo tra dodici giorni, allora!»

«Con il permesso di Vostra Altezza, potete tenervi i piaceri, ma — be’, ci sarebbe possibile dare un’occhiata ai, ehm, trofei di caccia, che Vostra Altezza deve aver raccolto come risultato, se così vogliamo chiamarlo, degli sforzi dei nostri predecessori?»

«Ma certo!» disse il Re, in tono indulgente, e batté le mani con una tale forza che volarono le scintille, le quali poi danzarono da una parete d’argento all’altra. Il soffio d’aria scaturito da quelle palme poderose raffreddò ancor di più il desiderio di avventura dei nostri costruttori. Comparvero sei guardie vestite di bianco e d’oro, che accompagnarono i due amici lungo un corridoio sinuoso e contorto come le budella di un gigantesco serpente. Alla fine, con grande sollievo, sbucarono in un enorme giardino aperto. Laggiù, su prati particolarmente ben curati, c’erano i trofei di caccia di Re Krool.

Il più vicino era un colosso dai denti a sciabola, praticamente tranciato in due. nonostante la pesante armatura di maglia e di piastre che — nelle intenzioni dei suoi costruttori — avrebbe dovuto proteggergli il tronco: le gambe posteriori, lunghe in modo sproporzionato (evidentemente progettate per lunghi salti), giacevano sull’erba accanto alla coda, che terminava con una mitragliatrice dal caricatore vuoto per metà, chiaro segno che la creatura non aveva ceduto senza lottare. Ne era una prova ulteriore anche la striscia di stoffa gialla che ancora le pendeva dalla mascella spalancata, perché Trurl vi riconobbe il colore dei calzoni dei cacciatori del Re.

Accanto c’era una seconda mostruosità sconfitta: un drago con una moltitudine di piccole ali, tutte deformate e annerite dal fuoco; i suoi circuiti erano fuoriusciti da un grosso squarcio, allo stato fuso, e poi si erano congelati in una specie di miscela rame-isolante.

Più avanti ancora c’era una terza creatura, in piedi sulle sue gambe larghe come colonne. La brezza del pomeriggio soffiava gentilmente tra le sue lunghe zanne (nel senso che il resto del cranio era sparito).

C’erano rottami su ruota e rottami cingolati, alcuni con artigli, altri con artiglieria, tutti spaccati fino al loro nucleo magnetico, tartarughe-carrarmato con le torrette sfondate, millepiedi militari mutilati e altre stranezze, rotte e segnate dalla battaglia, alcune munite di cervelli ausiliari (bruciati), altre appollaiate su trampoli periscopici (piegati) e piccole macchine perfide e mordaci. Queste dovevano aver attaccato in grandi sciami, per poi raggrupparsi in una sfera irta di canne da fuoco e di baionette — una buona idea, ma non abbastanza per salvare se stesse e il loro creatore.

Trurl e Klapaucius camminarono a lungo in quel sentiero di distruzione, pallidi, muti e con l’aria di chi va a un funerale, non di chi si appresta a una vigorosa sessione di invenzione. Giunti al termine dell’orrendo museo dei trionfi di Re Krool, salirono sulla carrozza che li aspettava alla porta. A quel punto, il tiro di draghi che li riportò al loro alloggio parve loro assai meno terribile che all’andata.

Non appena furono soli nel loro soggiorno, lussuosamente arredato di verde e di rosso, davanti a una tavola piena di bevande effervescenti e di cibi raffinati, Trurl sbottò in una salva di imprecazioni e insultò Klapaucius per aver accettato tanto spensieratamente l’offerta del Ministro della Caccia Reale, così attirando la sfortuna sulla loro testa, mentre avrebbero fatto bene a rimanersene a casa a riposare sugli allori.

Klapaucius non disse nulla, attese pazientemente che a Trurl passasse la rabbia, e quando vide che si era calmato, si era lasciato scivolare su una ricca sdraio di madreperla e si era preso la faccia tra le mani, disse: «Bene, faremmo meglio a metterci al lavoro».

Queste parole furono miracolose, nel ridare vitalità a Trurl; i due costruttori cominciarono evidentemente a valutare le possibilità a loro disposizione, e per farlo attinsero alla loro conoscenza dei più profondi e cupi segreti dell’arcana arte della generazione cibernetica.

Per prima cosa stabilirono che la vittoria non poteva stare né nella corazza né nella forza del mostro che avrebbero costruito, ma soltanto nel suo programma, ossia, in altre parole, in qualche algoritmo di discendenza demoniaca.

«Deve essere una creatura completamente diabolica, un essere di malvagità assoluta!» esclamarono, e anche se fino a quel momento non avevano una chiara idea di che cosa fare e di come farlo, l’osservazione sollevò notevolmente il loro spirito.

Tale era il loro entusiasmo, quando si accinsero a disegnare la bestia, che lavorarono per tutta la notte, per tutto il giorno e per una seconda notte e per un secondo giorno prima di interrompersi per fare colazione. E mentre si passavano l’un l’altro le bottiglie di Leida, erano così sicuri del successo che si strizzarono l’occhio e si sorrisero — ma solo quando i servitori non erano presenti, perché sospettavano (giustamente, del resto) che fossero spie del Re.

Per lo stesso motivo, invece di parlare del loro lavoro, i due costruttori lodarono l’elettrolito speziato portato loro, in coppe del miglior cristallo molato, dai camerieri in livrea. Solo dopo il pasto, quando si recarono nella veranda che dava sul villaggio, le cui guglie e le cui cupole riflettevano gli ultimi raggi d’oro del sole al tramonto, solo allora Trurl si girò verso Klapaucius e gli disse:

«Non siamo ancora fuori dai pasticci; lo sai».

«Che cosa intendi dire?» domandò Klapaucius, con la voce ridotta a un sussurro.

«C’è ancora una difficoltà» spiegò Trurl. «Vedi, se il Re sconfiggerà la nostra bestia meccanica, senza dubbio ci farà gettare in quel pozzo, con l’accusa di non aver rispettato i suoi ordini. Se invece la bestia… capisci quello che intendo dire?»

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