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Stanislaw Lem: Cyberiade

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Stanislaw Lem Cyberiade

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La roccia sotto i loro piedi fremette come se avesse la febbre.

La macchina si allontanò dalla caverna, lasciò entrare un filo di pallida luce e prese a gridare in tono stridulo. «Non è vero! Fa sette! Di’ sette, altrimenti ti ammazzo!» «Non lo dirò mai» gridò Trurl, di rimando, come se non si curasse di quel che gli poteva succedere; e infatti, un attimo dopo, ciottoli e terra piovvero sulle loro teste, perché la macchina aveva cominciato a buttarsi contro la montagna, usando come ariete tutti i suoi otto piani. Enormi massi, staccati dagli urti, rotolarono a valle.

Rumori di tuono e fiumi sulfurei dilagavano nella caverna, e dai colpi dell’acciaio sulla pietra volavano scintille; eppure, in tutto quel pandemonio, si sentiva ancora, di tanto in tanto, la voce roca di Trurl che gridava: «Due più due fa quattro! Due per due fa quattro!»

Klapaucius cercò di chiudere la bocca all’amico, anche ricorrendo alla forza, ma venne scagliato via violentemente, e dovette rinunciare. Si sedette in terra e si prese la testa tra le mani. Neppure per un attimo la macchina cessò i suoi folli sforzi: si aveva l’impressione che da un momento all’altro il soffitto dovesse crollare, per schiacciare i prigionieri e seppellirli per sempre. Ma quando i due malcapitati avevano ormai perso ogni speranza, e l’aria era piena di fumi acri e di polvere soffocante, si udì all’improvviso un orribile crepitio — un suono simile a quello di una lenta esplosione, più forte dei folli urti e colpi d’ariete di poco prima — e poi un soffio di vento; la parete di acciaio che bloccava la caverna venne spazzata via, come da un uragano, e mostruosi pezzi di roccia precipitarono dalla vetta del monte.

Gli echi della valanga riverberavano ancora nella valle sottostante quando i due amici si affacciarono dall’imboccatura della caverna e scorsero la macchina pensante. Era fracassata e appiattita, quasi spezzata in due da un masso enorme che l’aveva colpita nel mezzo dei suoi otto piani. Con grande attenzione i due costruttori discesero lungo il mucchio di macigni fumanti. Per raggiungere il letto del fiume era necessario passare accanto ai resti della macchina, simili al relitto di una grossa nave arenatasi sulla spiaggia. Senza una parola, i due si fermarono all’ombra della sua carena spezzata. La macchina tremava ancora leggermente. E si sentiva ancora girare, scattare qualcosa al suo interno.

«Ecco, questa è la brutta fine che ti sei meritata, e due più due fa… coree sempre ha fatto…» cominciò Trurl, ma proprio in quel momento la macchina emise un debole, quasi impercettibile cigolio e disse, per l’ultima volta: «…SETTE».

Poi qualcosa si spezzò al suo interno, qualche pietra cadde ancora dall’alto e davanti ai due costruttori non rimase che una massa di rottami senza vita. I due si scambiarono un’occhiata e in silenzio, senza altri commenti e senza proferire parola, ritornarono indietro per la strada da cui erano venuti.

NA BELLA BASTONATA

Qualcuno bussava alla porta di casa di Klapaucius il costruttore. Questi guardò fuori e vide una macchina dall’enorme pancione, montata su quattro corte zampe.

«Chi sei, e che cosa vuoi?» le chiese.

«Sono la Macchina Che Esaudisce Ogni Tuo Desiderio» disse lei «e sono stata mandata qui dal tuo buon amico e collega, Trurl il Magnifico, in dono».

«Dono, eh?» fece Klapaucius, i cui sentimenti nei riguardi di Trurl erano alquanto ambigui, a dir poco. Questa volta lo aveva irritato particolarmente l’espressione «Trurl il Magnifico». Dopo un po’, però, disse: «Va bene, puoi entrare».

Le ordinò di rimanere nell’angolo, vicino all’orologio a cucù, mentre ritornava al suo lavoro: una macchina tozza, su tre appoggi, che ormai era quasi completa.

Il costruttore le stava semplicemente assestando i tocchi finali.

Dopo un po’, la Macchina Che Esaudisce Ogni Tuo Desiderio si schiarì la gola e disse: «Io sono ancora qui».

«Oh, non mi sono dimenticato di te» rispose Klapaucius, senza guardarla. Dopo un po’, la macchina si schiarì di nuovo la voce e chiese: «Posso domandarti che cosa stai fabbricando?»

«Sei una Macchina Che Esaudisce Desideri o Una Macchina Che Fa Domande?» ribatté Klapaucius, ma aggiunse: «Mi serve un po’ di vernice azzurra».

«Spero che la tinta sia giusta» disse la macchina, aprendo un portellino nella propria pancia e cavandone un barattolo di vernice. Klapaucius vi tuffò il pennello senza fare parola e attaccò a dipingere. Nelle ore successive ebbe di volta in volta bisogno di cartavetro, di una punta al carborundum, di una staffa con bullone, di una latta di vernice bianca e di un cacciavite del 5, tutto materiale che la macchina gli fornì prontamente.

Quella sera, dopo aver coperto la sua opera con un telone, Klapaucius cenò, poi si sedette davanti alla macchina e disse: «Allora, vediamo che cosa sai fare. Dici di poter esaudire tutti i desideri…»

«Be’, quasi tutti» rispose la macchina, modestamente. «Cartavetro, vernice e cacciavite andavano bene, mi auguro?»

«Abbastanza, abbastanza» rispose Klapaucius. «Ma ora ho in mente qualcosa di leggermente più difficile. Se non riuscirai a farlo, ti rimanderò al tuo padrone con i miei sentiti ringraziamenti e il mio giudizio professionale».

«Va bene. Di che cosa si tratta?» chiese la macchina, visibilmente sulle spine.

«Voglio un Trurl» rispose Klapaucius. «Un Trurl che sia l’immagine sputata di Trurl stesso, talmente uguale a lui che nessuno possa distinguerli».

La macchina farfugliò e ronzò, e alla fine disse: «Va bene, ti farò un Trurl. Ma ti prego di trattarlo bene. Dopotutto, è un meraviglioso costruttore».

«Oh, certo, non preoccuparti» le rispose Klapaucius. «Allora, dov’è?»

«Cosa? Lo vorresti subito?» obiettò la macchina. «Fare un Trurl non è come fare un cacciavite del 5, lo sai anche tu. Sarà un lavoro lungo».

Ma non dovette passare molto tempo, prima che il portello della macchina si aprisse e ne uscisse Trurl. Klapaucius lo guardò dall’alto in basso e da sinistra a destra, lo toccò, gli diede qualche colpo con i polpastrelli, ma non potevano esserci dubbi: davanti a lui c’era un Trurl identico all’originale, come se fossero due gocce d’acqua. Il nuovo Trurl strabuzzava un po’ gli occhi perché non era abituato alla luce, ma per tutto il resto si comportava in modo normalissimo.

«Salve, Trurl!» disse Klapaucius.

«Salve, Klapaucius! Ma, aspetta un momento… come sono arrivato qui?» chiese Trurl, visibilmente strabiliato.

«Oh, sei venuto a trovarmi… sai, non ci vedevamo da un secolo. Che te ne pare del mio laboratorio?»

«Bello, bello…» rispose Trurl. «Che cos’hai, sotto quel telone?»

«Niente d’importante» minimizzò Klapaucius. «Perché non prendi una seggiola?»

«Be’, adesso dovrei davvero andare» si schermì Trurl. «Si fa buio…»

«Oh, hai già tanta fretta di lasciarmi! Sei appena arrivato!» ribatté Klapaucius. «Inoltre, non hai ancora visto la mia cantina».

«Cantina?» fece Trurl.

«Sì, la troverai molto interessante. Da questa parte…» Klapaucius mise un braccio sulle spalle di Trurl e lo accompagnò in cantina. Quando furono dentro, gli fece uno sgambetto, lo bloccò a terra e in quattro e quattr’otto lo legò come un salame. Poi prese una robusta sbarra di ferro e cominciò a dargliele di santa ragione. Trurl urlò, gridò aiuto, bestemmiò, implorò misericordia, ma Klapaucius non smise di battere, e i colpi risonarono ed echeggiarono anche all’esterno, nella notte buia e vuota.

«Ouch! Ouch! Perché mi batti?» gridò Trurl, cercando di sottrarsi alla gragnuola di colpi.

«Perché mi piace» spiegò Klapaucius, continuando a colpirlo. «Dovresti provare anche tu, una volta o l’altra, Trurl!»

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