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Stanislaw Lem: Cyberiade

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Stanislaw Lem Cyberiade

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«Ommioddìo!» disse Trurl. «Mi auguro che questa cosa non finisca male…»

«Non preoccuparti» lo rincuorò Klapaucius. «Come vedi, non produce il Nulla Universale, ma si limita a causare l’assenza delle cose che cominciano per N. E questo è nulla rispetto al Nulla, così come è nullo, mio caro Trurl, il valore della tua macchina».

«Non lasciarti ingannare» intervenne la macchina. «Certo, ho iniziato con tutto quel che comincia per N, ma solo perché mi era più familiare. Però, ricordate che creare è una cosa, ma distruggere è molto più semplice. Io sono perfettamente in grado di cancellare il mondo, per il semplice motivo che posso far tutto — e con ’tutto’ intendo proprio tutto — quel che inizia per N, e di conseguenza la Nullificazione è un gioco da ragazzi, per me. Tra meno di un minuto a partire da questo istante, anche tu cesserai di esistere, insieme a tutto il resto dell’universo, naturalmente, e perciò ammetti subito, Klapaucius, e in fretta, che io sono veramente, sinceramente, tutto quello che sono stata programmata per essere. Altrimenti sarà troppo tardi».

«Io…» fece per protestare Klapaucius, ma proprio in quell’istante constatò come tante altre cose fossero scomparse, e non solo quelle che cominciavano per N. Infatti, attorno ai costruttori, si notava già dolorosamente la mancanza di grazioni, tralusche, scialabotti, califratti, tissi, vorchi e pritoni.

«Ferma! Ritiro tutto quel che ho detto! Smetti! Stop! Non fare Nulla!» gridò Klapaucius.

Ma la macchina era lanciata, e prima che riuscisse a perdere l’abbrivio e a fermarsi del tutto, anche bratassi, palusti, larie e ziti erano spariti. Ora che la macchina era ferma, il mondo era ridotto a uno spettacolo che faceva male al cuore.

Il cielo, poi, era quello che aveva sofferto di più: nella sua volta rimanevano soltanto pochi puntolini di luce, minuscoli e isolati… non c’era più traccia delle gloriose strutture dei vorchi e degli ziti lucenti che tanta grazia, fino ad allora, avevano dato all’orizzonte!

«Grande Gauss!» gemette Klapaucius. «Dove sono i grazioni? E quei bei pritoni che mi piacevano tanto? E i delicatissimi, policromi ziti che splendevano così alti nel cielo?»

«Non esistono più, né mai più esisteranno» disse con calma la macchina. «Ho eseguito… o meglio ho cominciato a eseguire… il tuo ordine…»

Ti avevo detto semplicemente di fare il Nulla, e tu… e tu…» borbottò il costruttore.

«Klapaucius, non fare lo stupido più di quello che sei» disse la macchina. «Se avessi fatto immediatamente il Nulla, in un unico colpo mortale, tutto avrebbe cessato di esistere, e quel ’tutto’ comprendeva Trurl, il cielo, l’universo, te stesso… e anche me. In tal caso, chi avrebbe potuto dire — e a chi — che l’ordine era stato eseguito a puntino e che io sono una macchina fedele ed efficiente? E se nessuno avesse potuto dirlo e nessuno avesse potuto ascoltarlo, in che modo si sarebbe potuto rendere giustizia a me stessa, che non sarei più esistita?»

«Sì, è vero, lasciamo perdere» ribatté Klapaucius. «Non ho nient’altro da chiederti, ma ti prego soltanto, cara macchina, di ridarmi gli ziti, perché la vita, senza di loro, perde ogni gioia…»

«Non posso, dato che iniziano per z» rispose la macchina. «Naturalmente, posso riportare il nonsenso, la nocività, la nausea, la nevralgia, la noia, il nepotismo e la necrofilia. Per le altre lettere, però, spiacente, non sono in grado di aiutarti».

«Rivoglio gli ziti!» gemette Klapaucius.

«Niente ziti, mi dispiace» rispose la macchina. «Da’ una buona occhiata a questo mondo, e guarda com’è pieno di immense brecce aperte, e come vi predomini il Nulla. Lo stesso Nulla che riempie il vuoto insondabile tra una stella e l’altra, e che fodera — ormai — ogni cosa che ci circonda, e che minaccioso s’acquatta dietro ogni particella di materia. Ed è opera tua, invidioso! Non credo che le generazioni future ti saranno riconoscenti…»

«Forse… non lo sapranno, forse non se ne accorgeranno» gemette il pallido Klapaucius. Era ancora incredulo, ma, dopo aver sollevato lo sguardo al nero vuoto dello spazio, non osò guardare in faccia il collega Trurl. Lasciatolo accanto alla macchina che creava tutto quel che iniziava per N, Klapaucius se ne tornò a casa alla chetichella, nascondendosi come un ladro… e a tutt’oggi il mondo è crivellato di enormi distese di vuoto, esattamente come lo era quando fu fermato il processo di eliminazione. E se si tiene presente che ogni tentativo di costruire una macchina per le altre lettere è andato finora incontro all’insuccesso, rassegnamoci a non poterci più appagare lo spirito con la contemplazione di quei meravigliosi fenomeni naturali che erano i vorchi e gli ziti… ahimè, mai più.

LA MACCHINA DI TRURL

Una volta Trurl il costruttore fabbricò una macchina pensante a otto piani. Quando l’ebbe terminata, le diede una mano di vernice bianca, ne decorò i bordi con un filetto color lavanda, indietreggiò di qualche passo e strizzò le palpebre per rimirarla, le tracciò due ricciolini ai lati del capo, a mo’ di tirabaci, e nella zona corrispondente alla fronte le disegnò qualche cerchietto color arancio pallido, come se avesse voluto dipingerla a pois. Poi, superbamente compiaciuto di sé, prese a fischiettare un allegro motivetto e — com’è di prammatica in simili occasioni — rivolse alla macchina la domanda fatidica: «Quanto fa due più due?»

La macchina fremette tutta. I suoi tubi cominciarono a rosseggiare di un bel colore rubino, i trasformatori si scaldarono, la corrente elettrica si avventò lungo i suoi circuiti come l’acqua di una cascata, i convertitori presero a pulsare e a ronzare, si udì prima un ticchettio, poi un clangore, e infine uno sferragliare cupo, ma così forte, così di malaugurio, che Trurl si chiese se non fosse il caso di metterle una particolare sordina per il ragionamento.

Intanto, la macchina continuava a ponzare, come se le fosse sfato chiesto di risolvere il problema più complicato dell’universo. La terra tremava, la sabbia scivolava sotto i piedi di Trurl per le vibrazioni, le valvole venivano sparate in tutte le direzioni come tappi di champagne, i relè vacillavano per lo sforzo. Alla fine, quando Trurl era già visibilmente scocciato, la macchina arrivò faticosamente al termine del difficile computo e disse con voce di tuono: «SETTE!»

«Assurdo, mia cara» rispose Trurl. «La risposta è ’quattro’. Adesso fa’ la brava macchina e datti una regolata. Quanto fa due più due?»

«SETTE!» ribatté la macchina.

Con un sospiro, Trurl tornò a infilarsi la tuta, si rimboccò le maniche, aprì il portello inferiore e s’infilò all’interno. Per molto tempo continuò a martellare giunti, a serrare dadi, a saldare conduttori, a correre faticosamente su e giù per le scalette, un po’ al sesto piano, un po’ all’ottavo, poi tornò dabbasso, ansimando per la fatica, e spinse una leva… ma qualcosa prese a crepitare sopra di lui, e tra i contatti scoccò un luminosissimo arco voltaico.

Dopo altre due ore di quel lavoro, comunque, il costruttore uscì dalla macchina sporco ma soddisfatto, rimise a posto tutti gli attrezzi di cui si era servito, si sfilò la tuta, si ripulì la faccia e le mani. Poi, quando già stava per andarsene, si girò un’ultima volta a fare la domanda, tanto perché non rimanessero dubbi.

«Allora» chiese «quanto fa due più due?»

«SETTE!» rispose la macchina.

Trurl scagliò una terribile bestemmia, ma non c’era niente da fare: anche questa volta dovette infilarsi dentro la macchina, a dissaldare, a correggere, a controllare, a calibrare, e, quando gli toccò sentire per la quarta volta che due più due faceva sette, si lasciò scivolare a terra per la disperazione.

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