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Stanislaw Lem: Cyberiade

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Stanislaw Lem Cyberiade

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«E già qui?» gemette Trurl.

«Sì» disse il sindaco. «E pretende che vi consegniamo a lei, altrimenti minaccia di radere al suolo l’intera città». In quel momento giunsero fino a loro, dall’alto, alcune parole che echeggiavano come se fossero gridate al megafono.

«Trurl è qui dentro… sento l’odore di Trurl!» dicevano.

«Ma voi non avete alcuna intenzione di consegnarci, vero?» chiese con voce tremante l’obiettivo della furia e dell’ostinazione della macchina.

«Quello di voi che si chiama Trurl deve andarsene» annunciò il sindaco. «L’altro può rimanere, dato che la sua consegna non rientra nelle condizioni…»

«Pietà…»

«Non possiamo farci niente» spiegò il sindaco. «E se tu rimanessi qui, Trurl, dovresti rispondere dei danni causati a questa città e ai suoi abitanti, perché è per colpa tua che la macchina ha distrutto sedici case e ha sepolto sotto le loro rovine un buon numero dei nostri più stimati cittadini. Solo il fatto che ti trovi in imminente pericolo mi permette di lasciarti andare via senza punizione. Va’, dunque, e non farti più rivedere da queste parti».

Trurl rivolse un muto appello ai consiglieri, ma, vedendo scritta sulle loro facce severe la sua condanna, lentamente si girò, abbassò la testa e si avviò alla porta.

«Aspetta! Vengo con te!» esclamò Klapaucius, d’impulso.

«Tu?» fece Trurl, nella cui voce tornava ad affiorare un filo di speranza. «Ma non devi…» aggiunse, dopo un momento. «Perché vuoi morire anche tu?»

«Sciocchezze!» ribatté Klapaucius, con grande energia. «Cosa dici, morire per mano di quel grosso tontolone di ferro? Neanche per idea! Occorre ben altro, mio caro amico, per spazzare via dalla faccia del mondo i due più famosi costruttori che siano mai esistiti! Vieni con me, Trurl! Su col morale!»

Incoraggiato da quelle parole, Trurl sali di corsa le scale, sulla scia di Klapaucius. Nella piazza antistante non c’era neppure un’anima. Tra le nubi di polvere e i macilenti scheletri delle case che aveva demolito, s’ergeva solo la macchina, più alta della torre del municipio: sbuffava vapore ed era coperta del sangue dei mattoni polverizzati, sporca di gesso e di calce.

«Attento!» sussurrò Klapaucius. «Non ci ha ancora visto. Pigliamo la prima strada a sinistra, quindi giriamo a destra e poi via, ce la filiamo verso quei monti. Lassù cercheremo un buon rifugio e, con calma, troveremo la maniera di convincere quella stupida macchina a rinunciare al suo folle propo… Adesso!» gridò, perché la macchina li aveva visti e si era lanciata contro di loro, facendo sobbalzare l’asfalto della strada.

Senza fiato, corsero via dalla città e percorsero di gran carriera più di un miglio, con i passi pesanti del colosso che li seguiva senza pietà nelle orecchie.

«Conosco quel canalone!» gridò all’improvviso Klapaucius. «E’ il letto di un ruscello asciutto, e sale fino a una zona di rupi e caverne… più in fretta, più in fretta, presto sarà obbligata a fermarsi!»

Così, si arrampicarono fin sul monte, inciampando e sbattendo le braccia per non perdere l’equilibrio, ma la distanza tra loro e la macchina non fece che diminuire. Scivolando sui ciottoli dell’alveo disseccato, giunsero infine a un crepaccio della parete perpendicolare di roccia, e scorgendo in alto, sopra di loro, la buia imboccatura di una caverna, cominciarono a salire freneticamente verso di essa, incuranti delle pietre che si staccavano sotto i loro piedi. La caverna era buia; dall’entrata usciva un soffio d’aria umida e gelida. I due costruttori oltrepassarono la soglia più in fretta che poterono, fecero qualche passo all’interno e infine si fermarono.

«Bene, almeno siamo al sicuro» disse Trurl, che adesso aveva ripreso la calma. «Mi sporgo a dare un’occhiata, per vedere dove si è bloccata la macchina».

«Attento» lo avvertì Klapaucius. Trurl, pochi centimetri la volta, arrivò fino al bordo della caverna, si sporse all’esterno e rientrò precipitosamente, con l’aria allarmata.

«Sale sulla montagna!» esclamò.

«Non preoccuparti, qui non può arrivare» gli garantì Klapaucius, benché non ne fosse del tutto convinto. «Ma che cosa succede? Si sta facendo buio? Oh, no!»

In quel momento, una grande ombra cancellò la fetta di cielo visibile attraverso l’imboccatura della caverna, e al suo posto comparve una liscia parete di acciaio con tante file di rivetti. Era la macchina, che si accostava lentamente alla roccia fino a bloccarne l’apertura, come un gigantesco coperchio di metallo.

«Siamo intrappolati…» sussurrò Trurl. La sua voce si spense quando l’oscurità divenne assoluta.

«E’ stata una vera idiozia da parte nostra!» esclamò Klapaucius. «Ci siamo rifugiati in una caverna con una sola via d’uscita! Come possiamo aver fatto una simile idiozia?»

«Che cosa aspetta, adesso?» chiese Trurl, dopo una lunga pausa.

«Aspetta che ci arrendiamo. Questo non richiede una grande intelligenza da parte sua».

Di nuovo scese il silenzio. Nel buio, in punta di piedi, Trurl tese le mani e si avvicinò cautamente all’apertura, passando le dita sulla roccia finché non toccò l’acciaio levigato, che al contatto risultava tiepido, come se fosse riscaldato dall’interno.

«Sento Trurl…» gridò la macchina d’acciaio, con voce di tuono.

Trurl si affrettò a tirarsi indietro, si sedette accanto all’amico e per qualche tempo nessuno dei due parlò. Alla fine, prese la parola Klapaucius.

«Non ha alcun senso, rimanercene qui seduti» sussurrò. «Cercherò di ragionare con quella macchina…»

«Inutile» rispose Trurl. «Ma fa’ come vuoi. Forse lascerà libero almeno te».

«Via, via, non parlare così!» disse Klapaucius, battendogli una pacca sulla schiena. Si fece strada fino all’imboccatura della caverna.

«Ehi, lì fuori!» gridò. «Mi senti?»

«Certo» rispose la macchina.

«Ascolta, vogliamo chiederti scusa. Capisci, c’è stato qualche piccolo malinteso, è vero, ma in realtà si trattava di cose da niente. Trurl non aveva intenzione di…»

«Quel Trurl!» esclamò la macchina. «Lo polverizzo! Ma prima dovrà dirmi quanto fa due più due».

«Naturalmente, te lo dirà, certo, e vedrai che la sua risposta sarà di tua piena soddisfazione, e farai la pace con lui, non è vero, Trurl?» disse il pacificatore, in tono mellifluo.

«Be’, sì, certamente…» mormorò Trurl.

«Davvero?» chiese la macchina. «Allora, quanto fa due più due?»

«Quatt… no, voglio dire, sette…» rispose Trurl, con voce ancora più bassa.

«Ah! Non quattro, ma sette, eh!» fece la macchina, esultante. «Visto? Te l’avevo detto!»

«Sette, certo» intervenne Klapaucius, ansioso di entrare nelle grazie della macchina. «L’abbiamo sempre saputo. E adesso ci lascerai, ehm, andare?» aggiunse in tono sospettoso.

«No» rispose la macchina. «Deve essere Trurl a dirmi che gli dispiace e spiegarmi quanto fa due più due».

«Ma poi ci lascerai andare, se lo farò?» chiese Trurl.

«Non lo so ancora» rispose la macchina. «Ci penserò. Per ora, dimmi quanto fa due per due, e io…»

A quel punto, Trurl venne preso dalla rabbia.

«Te lo dico, certo che te lo dico!» strillò. «Due più due fa quattro, e due per due fa quattro, e due alla seconda fa quattro, e puoi metterti a testa in giù, ridurre in polvere queste montagne e bere tutta l’acqua dell’oceano finché non sarà prosciugato, mangiarti il cielo… ma la cosa non cambia. Due più due fa quattro!»

«Trurl, cosa dici? Sei fuori di senno? Due più due fa sette, carissima macchina! Sette, sette!» gridò Klapaucius, cercando di parlare più forte del compagno.

«No, quattro! Quattro e soltanto quattro, dall’inizio del tempo alla fine dell’universo… QUATTRO!» urlò Trurl, che cominciava ad avere la voce roca.

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