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Stanislaw Lem: Cyberiade

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Stanislaw Lem Cyberiade

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Si sedette ai piedi della macchina e non si mosse finché non venne a trovarlo Klapaucius, che subito s’informò di cosa gli fosse successo, perché Trurl aveva l’aria di chi è appena ritornato da un funerale.

Trurl cercò di spiegare brevemente il problema; lo stesso Klapaucius non mancò d’infilarsi all’interno del congegno un paio di volte, cercò di mettere a posto questo e quello, poi chiese alla macchina la somma di due più uno, che risultò essere sei. Inoltre, secondo la macchina, uno più uno faceva zero.

Klapaucius si grattò la testa e si schiarì la gola.

«Amico mio» disse a Trurl «devi semplicemente affrontare la realtà. Ormai è chiaro: questa non potrà mai essere la macchina che intendevi costruire. Tuttavia, consolati pensando che ogni cosa ha il suo lato positivo, e che perciò anch’essa lo avrà».

«Che lato positivo?» mugugnò Trurl, sferrando un calcio alla base su cui sedeva.

«Cerchiamo di piantarla» intervenne la macchina. «Mmm, è anche permalosa» commentò Klapaucius. «Ma dove eravamo? Ah, ecco. Non ci sono dubbi, qui abbiamo una macchina stupida, ma non di una stupidità banale, di tutti i giorni, oh, no! Questa è, a quanto mi risulta — e sai che di queste cose ho una certa esperienza — la più stupida macchina pensante che sia mai esistita al mondo, e non si tratta di una cosa trascurabile.

«Costruire intenzionalmente una macchina come questa sarebbe tutt’altro che facile; anzi, a dire il vero, penso che nessuno ne sarebbe in grado. Infatti la tua creazione non è soltanto stupida, ma anche ostinata come un mulo, ovvero ha una personalità assai comune tra gli idioti, che — è noto — in genere sono straordinariamente ostinati».

«Che razza di impiego vuoi che si possa trovare, per una macchina come questa?» chiese Trurl, e le mollò un altro calcio.

«Ti avverto, è meglio che la pianti!» minacciò la macchina.

«Ti dà perfino un ’avvertimento’, guarda un po’» osservò Klapaucius seccamente. «Non solo è permalosa, poco intelligente e ostinata, ma si permette di rimbeccare. Credimi, con una tale somma di caratteristiche negative, potresti farle fare ogni sorta di cose!»

«Per esempio?» chiese Trurl.

«Be’, difficile dirlo su due piedi. Potresti metterla in mostra in un circo, e far pagare il biglietto per vederla: la gente accorrerebbe a frotte, per rimirare la più stupida macchina pensante mai esistita… quanti piani ha, otto? Davvero, come si potrebbe immaginare un imbecillone più grosso di questo? Esibendo la macchina, non soltanto ti rifaresti delle spese vive, ma anche…»

«Basta, non intendo esibire niente!» disse Trurl. Si alzò e, irrefrenabile, sferrò un ulteriore calcio alla macchina. «Con questo, siamo già al terzo avvertimento» lo ammonì lei.

«Cosa?» fece Trurl, infuriato per il tono prepotente usato dalla sua creazione. «Tu… tu…» incapace di esprimere a parole la sua collera, le mollò una serie di pedate, in rapida successione, gridando: «Sai solo farti prendere a calci, te ne rendi conto?»

«Mi hai insultata per la quarta, quinta, sesta, e ottava volta» disse la macchina. «Perciò mi rifiuto di rispondere ancora a domande di carattere matematico».

«Si rifiuta! Hai sentito cosa ha detto?» gridò Trurl, ormai completamente esasperato. «E dopo il sei viene l’otto — l’hai notato, Klapaucius? — non il sette, ma l’otto! E quello è il tipo di matematica che Sua Altezza si rifiuta di eseguire! Prendi questo! E questo! E questo! O ne vuoi ancora?»

La macchina fremette, si scrollò tutta e — senza fare parola — cercò di divincolarsi dalle fondamenta. Queste erano molto profonde, e le centine cominciarono a piegarsi, ma alla fine si staccò, lasciando dietro di sé grossi blocchi di cemento spezzati, con i tondini di ferro che sporgevano, e si lanciò contro Trurl e Klapaucius come uria fortezza mobile.

Trurl era troppo stupito: non cercò neppure di schivare la macchina, che dava l’impressione di volerlo schiacciare come una polpetta. Ma Klapaucius lo prese per il braccio e lo tirò via, con un robusto strattone; poi tutt’e due se la diedero a gambe. Quando si guardarono alle spalle, qualche minuto più tardi, videro che la macchina dondolava come un’alta torre e avanzava lentamente, affondando nella sabbia — a ogni passo — fino al primo piano, ma che ogni volta, con un’ostinazione maniacale, si tirava fuori dalla sabbia e puntava direttamente verso di loro.

«Chi ha mai sentito una cosa simile?» ansimò Trurl, al massimo dello stupore. «Questo è un ammutinamento! Che fare, adesso?»

«Attendere e osservare» rispose il prudente Klapaucius. «Potremmo imparare qualcosa».

Ma in quel momento non c’era molto da imparare. La macchina era arrivata su un terreno più solido e prendeva velocità. Dal suo interno giungevano fischi, sibili e colpi di tosse.

«Da un minuto all’altro, l’intera unità di comando si staccherà a causa degli urti» disse Trurl, senza fiato. «Si spezzerà il programma e la macchina si fermerà».

«No» disse Klapaucius «questo è un caso speciale. Quella macchina è talmente stupida che, anche se saltasse l’intera trasmissione di dati, la cosa non avrebbe importanza. Ma… attento!»

La macchina accelerò l’andatura, chiaramente intenzionata a raggiungerli; i due costruttori corsero più in fretta che poterono, pensando solo alle terribili orme alle loro spalle. Continuarono a correre a perdifiato… che altro potevano fare? Prima cercarono di ritornare al punto di partenza, ma la macchina li aggirò sul fianco, bloccò loro il cammino, li costrinse ad addentrarsi sempre più profondamente in una regione selvaggia e disabitata. Lentamente, dalla foschia che velava l’orizzonte, i due costruttori videro emergere montagne inaccessibili, piene di dirupi e crepacci. Trurl, ansimante, si rivolse a Klapaucius. «Ascolta!» gli disse. «Dirigiamoci verso qualche canyon molto stretto, dove non possa seguirci… quella maledetta cosa… che ne dici?»

«No, meglio andare dritti» rispose Klapaucius, con il fiato corto. «Davanti a noi c’è una città… non ricordo come si chiama… comunque, cercheremo — uff! — rifugio laggiù…»

Così, continuarono a correre dritto davanti a loro, e presto videro comparire le prime case. A quell’ora del giorno, le strade erano praticamente deserte, e i costruttori percorsero un buon tratto senza incontrare anima viva finché un orribile schianto — come se una valanga avesse distrutto la periferia cittadina — non rivelò loro, all’improvviso, che la macchina li stava ancora inseguendo.

Trurl si guardò alle spalle e gemette.

«Santo Cielo! Sta distruggendo le case, Klapaucius!» Infatti la macchina, ostinatamente tesa al loro inseguimento, si scavava un solco nelle pareti degli edifici, abbattendoli come una montagna d’acciaio. Sulla sua scia si scorgevano mucchi di macerie e una nube bianchiccia di polvere di gesso e di calcina. Si udivano urla da far accapponare la pelle, per tutte le strade regnava la confusione, e Trurl e Klapaucius, con il cuore in gola, corsero finché non giunsero a un grande palazzo municipale. Balzarono all’interno e scesero per un’interminabile teoria di scale, finché non trovarono riparo in un profondo sotterraneo.

«Qui non riuscirà mai a prenderci, neppure se facesse crollare sulla nostra testa l’intero edificio!» ansimò Klapaucius. «Ma davvero dev’essere stato il diavolo, a suggerirmi di passare a trovarti, quest’oggi… Ero curioso di sapere come progredisse il tuo lavoro, e, be’, non si può dire che ora non lo sappia…»

«Zitto» lo interruppe Trurl. «Arriva qualcuno».

E in effetti la porta del sotterraneo si aprì, per lasciar passare il sindaco e alcuni consiglieri della giunta. Trurl era troppo imbarazzato per spiegare come fosse nata quella strana e disgraziata situazione; dovette farlo Klapaucius. Il sindaco ascoltò in silenzio. All’improvviso le pareti tremarono, il terreno sobbalzò come per un terremoto, e il rumoroso schianto della pietra che va in frantumi arrivò fino alle profondità del sotterraneo.

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