Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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Improvvisamente lei disse, pensosa: «Qualche volta mi domando perché non mi picchi mai».

Rumata stava abbottonandosi la camicia di pizzo. Si fermò, raggelato.

«Cosa vuoi dire?» le chiese, perplesso. «Come si potrebbe pensare di picchiarti?»

«Tu non sei solo un uomo buono, molto buono» continuò Kyra senza ascoltarlo «sei anche un uomo molto strano, sembri quasi un arcangelo. Quando sei con me mi sento fortissima. Adesso, per esempio, sono forte. Una volta o l’altra te lo chiederò.

Un giorno mi parlerai di te? Non ora, solo quando tutto questo sarà finito. Lo farai per me?»

Rumata tacque a lungo. Muga gli porse la giacca arancione con i nastri rossi. Lui l’indossò con fastidio e allacciò la cintura.

«Sì» disse poi. «Un giorno ti racconterò tutto».

«Aspetterò» rispose lei seriamente. «Ma adesso devi andare. Non farti trattenere da me».

Rumata si avvicinò e premette teneramente le labbra livide sulle sue. Poi si tolse dal polso il braccialetto di ferro e glielo diede.

«Mettitelo a1 polso sinistro. Non credo che oggi verranno a trovarci di nuovo… Ma nel caso si facciano vivi mostra loro questo braccialetto».

Lei lo seguì con lo sguardo e Rumata sentì che lo stava chiamando in silenzio. «So che sta pensando: ‘Non so chi sei, forse il diavolo, forse il Figlio di Dio, forse un uomo che viene da mondi leggendari al di là dei mari, ma una cosa è certa: se non ritorni, morirò’«.

Le fu grato per il suo silenzio, perché doverla lasciare era stranamente difficile.

Come gettarsi a capofitto da un mare limpido di smeraldo in una pozzanghera.

Capitolo VIII

Rumata decise di non andare direttamente negli uffici di Don Reba di Arkanar.

Strisciò di soppiatto lungo i cortili, si nascose dietro file di stracci appesi ad asciugare, si infilò dentro i buchi nelle palizzate, impigliandosi con i nastri e i preziosi pizzi di Soan nei chiodi arrugginiti, e camminò a quattro zampe tra i mucchi di patate. Ma nonostante tutti gli sforzi non riuscì a eludere l’occhio vigile dei monaci neri. Girando in un vicolo stretto che portava alla discarica, ne incontrò due, cupi e ubriachi.

Cercò di evitarli, ma i monaci sguainarono le spade e gli bloccarono il passaggio.

Mentre anche lui afferrava le spade, i monaci fischiarono per chiamare rinforzi.

Rumata stava per ritornare nel buco della palizzata da cui era uscito, quando un omino agile dal viso insignificante corse verso di lui. Urtò contro la spalla di Rumata, si precipitò verso i monaci e sussurrò loro qualcosa, al che i due sollevarono le vesti, scoprendo i nastri lilla avvolti intorno alle gambe, e se ne andarono, sparendo presto dietro alcune case. L’omino li seguì senza voltarsi.

«Così va la faccenda» pensò Rumata. «Una spia, una guardia del corpo. E non si cura neppure di fare il suo lavoro di nascosto. Il nostro nuovo vescovo pensa davvero a tutto. Sarebbe interessante sapere se ha paura di me o per me». Seguendo con lo sguardo la spia, Rumata andò verso la discarica, che portava al retro degli edifici dell’ex ministero della Sicurezza Interna. Sperava che non ci fosse nessuno di guardia.

Il vicolo era deserto. Non si vedeva anima viva. Ma subito sentì lo scricchiolio delle persiane, delle porte aperte e richiuse, un neonato che piangeva e un mormorio ansioso che avvolgeva tutto. Da dietro una staccionata cadente sbucò un viso emaciato, annerito da strati di sporcizia. Due occhi vuoti spaventati guardarono Rumata.

«Le chiedo scusa, nobile signore; mi perdoni, la prego. Forse il nobile signore potrebbe dirmi cosa sta succedendo in città? Sono Kickus il fabbro, detto anche lo Zoppo. Vorrei andare alla mia forgia, ma ho paura…»

«Non andarci» disse Rumata. «Con questi monaci c’è poco da scherzare. Il Re è morto. Don Reba ha preso il potere. Adesso è vescovo del Sacro Ordine. È meglio che tu resti a casa».

Il fabbro accompagnò ciascuna parola di Rumata con un cenno entusiastico della testa, mentre gli occhi gli si riempivano di malinconia e disperazione.

«Il Sacro Ordine. Dice davvero?» borbottò. «Sarò dannato… Le chiedo perdono, nobile signore. Così, l’Ordine… Sono i Grigi, vero?»

«No, no» rispose Rumata, guardandolo con una certa curiosità. «I Grigi sono stati sconfitti. Questi sono i monaci».

«Oh povero me! Allora i Grigi sono… i Grigi sono stati sconfitti? Non male, direi.

Ma cosa ci succederà adesso, nobile signore, che ne dice? Dovremo conformarci, eh?

Conformarci al Sacro Ordine, vero?»

«Perché no? L’Ordine dovrà pure mangiare e bere. Adattatevi a loro!»

Di colpo il fabbro si animò.

«È quello che penso anch’io, signore. Dobbiamo adattarci e conformarci. Penso che la cosa principale sia vivere e lasciar vivere. È così?»

Rumata scosse la testa. «Oh, no» disse. «Quelli che resteranno calmi e pacifici saranno i primi a morire».

«Mi sembra anche giusto, in fondo. Ma noi cosa dovremmo fare? Un uomo solo è debole come un mignolo, e tutti quei preti ci stanno addosso. Oh, madre gloriosa, se solo tagliassero la gola al mio padrone! Era ufficiale dei Grigi. Che ne dice, signore, è possibile che gli abbiano fatto la festa, vero? Sa, gli devo cinque monete d’oro».

«Non saprei. Potrebbero averlo fatto fuori, possibile. Ma vorrei che tu pensassi a una cosa: è vero che da solo sei debole come un mignolo, ma ci sono migliaia di mignoli come te in questa città».

«E allora?»

«Niente, pensaci!» disse infastidito Rumata e si allontanò.

«Per il bene che potrà fargli un simile consiglio» pensò Rumata. «Per lui è ancora troppo presto per cercare di pensare. Come potrebbero essere semplici le cose, qui: migliaia di pugni come questo, se infuriati a dovere, potrebbero fare polpette di chiunque. Ma non sono ancora a questo punto. Non hanno ancora sperimentato la giusta furia. Solo la paura. Ognuno per sé, e Dio per tutti».

I cespugli di sambuco che orlavano la strada cominciarono improvvisamente a muoversi e a ondeggiare, e saltò fuori Don Tameo. Nel momento in cui vide Don Rumata, Don Tameo esplose di gioia; malgrado la mole balzò agilmente in piedi, e si avvicinò barcollando, stendendo le mani sporche verso Rumata.

«Mio nobile amico!» gridò. «Che gioia! Vedo che anche lei sta andando verso la cancelleria».

«Sì, infatti, signore» rispose Don Rumata. Si divincolò, liberandosi subito dall’abbraccio di Don Tameo.

«Mi permette di unirmi a lei, signore?»

«Sarà un onore per me, signore».

Si inchinarono. In apparenza, Don Tameo non aveva ancora calmato la sete della mattina. Dalle pieghe dei suoi ampi pantaloni gialli estrasse una fiaschetta del migliore.

«Le andrebbe di bere qualcosa con me?» chiese, facendo un gesto elegante con la bottiglia.

«No, grazie» rispose Rumata.

«Rum! Vero rum della capitale! L’ho pagato a peso d’oro!»

Scesero lungo la discarica. Tennero il naso chiuso mentre passavano attraverso mucchi di spazzatura, cani morti, pozzanghere puzzolenti brulicanti di vermi. L’aria mattutina era piena del ronzio incessante di milioni di mosche smeraldine.

«Stranissimo» disse Don Tameo, tappando la bottiglia. «Non ero mai stato qui».

Rumata restava zitto.

«Sono sempre stato un ammiratore di Don Reba» continuò Don Tameo. «Ho sempre saputo che prima o poi avrebbe cacciato dal trono quel buono a nulla del Re, aprendoci nuove strade e offrendo nuove prospettive alla nazione». A quelle parole scivolò in una pozzanghera verdastra, schizzandosi di fango dalla testa ai piedi, ma riuscendo ad aggrapparsi al braccio di Rumata per non cadere a faccia in giù. «Oh, sì» riassunse le sue considerazioni dopo essersi rimesso in piedi. «Noi, i giovani aristocratici, saremo sempre sostenitori di Don Reba! Adesso ci dimostreranno il dovuto rispetto. Giudicate da voi, mio nobile amico, è un’ora che cammino per le strade e non ho ancora incontrato uno solo di quei bastardi Grigi. Abbiamo cancellato la feccia Grigia dalla faccia della terra. Ah, che meraviglia poter respirare di nuovo nella nostra nuova Arkanar! Al posto dei bottegai arroganti, degli imbroglioni, di quei pidocchi dei contadini, ora nelle strade ci sono i Servi di Dio. L’ho visto con i miei occhi: i nobili camminano apertamente davanti ai loro palazzi. Non devono più temere che qualche sciocco con il grembiule da vetturino li schizzi di fango con le ruote del carro! E non c’è più bisogno di farsi largo a gomitate tra le file dei macellai.

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