Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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Arkadi e Boris Strugatzki

È difficile essere un dio

Traduzione di Marco Pensante

Arkadi e Boris Strugatzki 1964

Marcos y Marcos 2005

Titolo originale: Trudno byt’ bogom

Prologo

La balestra di Anka aveva un’impugnatura di plastica nera. Un verricello silenzioso regolava la corda di acciaio cromato. Anton non apprezzava molto quelle innovazioni. Lui aveva un archibugio convenzionale modello Maresciallo Totz, epoca Re Pitz primo. Era rivestito di rame brunito, e negli ingranaggi scorreva il cavo di tendini di bue. Pashka, invece, aveva un fucile ad aria. Giudicava gli archi delle armi giocattolo, perché era pigro di natura e un po’ maldestro.

Attraccarono sulla costa nord, in un punto dove le radici contorte dei pini giganteschi bucavano il pendio di sabbia chiara. Anka lasciò il timone e si guardò intorno. Il sole splendeva alto sulla foresta. Sul lago era sospesa una foschia azzurrina. Il verde lucido dei pini, una spiaggia bianca in lontananza. La cupola del cielo azzurro racchiudeva il paesaggio.

I ragazzi si sporsero dalla barca, guardando nell’acqua.

«Non si vede niente» disse Pashka.

«Un luccio enorme» disse Anton, un po’ avventatamente.

«Con quelle pinne?» obiettò Pashka.

Anton non rispose. Anka guardava anche lei nell’acqua, ma vedeva solo la propria immagine riflessa.

«Perché non facciamo una nuotata?» disse Pashka, immergendo il braccio fino al gomito. «Fredda» osservò.

Anton salì sulla prua e scese a terra. La barca dondolava. Anton, tenendola ferma, lanciò a Pashka uno sguardo interrogativo. Lui si alzò, mise in spalla il remo come un portatore d’acqua, piegò un poco le ginocchia e gridò:

Vecchio pirata,
Lupo di mare Witzliputzli!
Stai in guardia, sentinella?
Guarda! Un branco di squali tosti
Si avvicina, e nuota duro!

Anton fece oscillare la barca.

«Ehi, ehi!» strillò Pashka, cercando di non perdere l’equilibrio.

«Perché ‘tosti’?» chiese Anka.

«Non lo so» rispose Pashka. Scesero a terra. «Non male, però, vero? Un branco di squali tosti!»

Tirarono in secca la barca. Scivolava sulla sabbia bagnata cosparsa di pigne e di aghi di pino secchi. La barca era pesante, scivolosa, ma riuscirono a tirarla all’asciutto. Poi si fermarono a riprendere fiato.

«Mi sono quasi schiacciato un piede» disse Pashka, raddrizzandosi il fez rosso e portandone la nappa sopra l’orecchio destro, proprio come facevano i pirati irukani dal gran naso. «La vita non vale un centesimo!» sentenziò.

Anka era intenta a succhiarsi un dito.

«Una scheggia?» chiese Anton.

«No. Mi sono graffiata. Uno di voi due deve avere le unghie lunghe».

«Fa’ vedere».

Lei gli mostrò il dito.

«Già» osservò Anton. «Un graffio… Be’, muoviamoci!»

«Prendi le armi e cominciamo a seguire la spiaggia» suggerì Pashka.

«Allora non c’era bisogno di scendere a terra» disse Anton.

«È un peccato restare in barca» disse Pashka. «A riva ci sono un sacco di cose.

Canne, scarpate, mulinelli, gorghi, conchiglie… Anche pesci gatto».

«Un branco di pesci gatto tosti» disse Anton.

«Ehi, ti sei mai tuffato in un mulinello?»

«Certo».

«Strano, non ti ho mai visto».

«Ci sono tante cose che non hai mai visto».

Anka voltò le spalle, sollevò l’arco e mirò a un pino cinquanta metri più in là.

Volarono schegge di corteccia.

«Ehi, hai visto?» esclamò Pashka, ammirato. Con il fucile ad aria mirò allo stesso bersaglio. Lo mancò. «Non ho trattenuto bene il respiro» si giustificò.

«Anche se lo avessi fatto, che cosa cambiava?» disse Anton. Guardò Anka.

Con un movimento deciso, lei caricò la balestra d’acciaio con il verricello. Aveva dei bellissimi muscoli, e Anton ammirò la sfera dura del suo bicipite guizzare sotto la pelle abbronzata.

La ragazza mirò attentamente e tirò di nuovo. La seconda freccia si conficcò nel tronco appena sotto la prima.

«Non ha senso» disse Anka, e abbassò la balestra.

«Che cosa?» chiese Anton.

«Così roviniamo gli alberi e basta. Ieri un ragazzo ha tirato una freccia contro un albero e l’ho costretto a tirarla via con i denti».

«Pashka sarebbe scappato» disse Anton. «Tu hai buoni denti».

«Anch’io so fischiare tra i denti!» esclamò Pashka.

«Allora facciamo qualcosa!» disse Anka.

«Io non ho voglia di arrampicarmi su e giù per le scarpate» disse Anton.

«Neanch’io. Andiamo dritti».

«E dove?» chiese Pashka.

«Segui il tuo naso».

«Che significa?» disse Anton.

«Andiamo nella foresta!» propose Pashka. «Toshka, ti ricordi la Strada Dimenticata?»

«Certo!»

«Sai, Anecka…» disse Pashka.

«Non chiamarmi Anecka» sbottò lei. Non sopportava di essere chiamata con altro nome che Anka.

Anton sapeva benissimo che non le piaceva, e disse svelto: «Certo, la Strada Dimenticata. Da anni non ci passa più nessuno. Non è neppure segnata sulle carte, e non si sa dove porti».

«Ci sei mai stato?»

«Sì. Ma non l’abbiamo esplorata».

«Una strada che parte dal nulla e porta al nulla» disse Pashka, di nuovo sicuro di sé.

«Bello!» esclamò Anka. I suoi occhi divennero due fessure nere. «Andiamo!

Pensate che riusciremo a essere là per stasera?»

«Ma che dici? Ci arriveremo verso mezzogiorno».

Si arrampicarono sul pendio ripido. Arrivati in cima, Pashka si guardò intorno.

Sotto di loro c’erano il lago azzurro con i banchi di sabbia gialla e la barca sulla spiaggia. Vicino alla battigia, dove l’acqua era liscia come l’olio, dei cerchi concentrici interrompevano la superficie: il luccio, probabilmente. E il ragazzo sentì, come sempre, la vaga contentezza che provava ogni volta che lui e Toshka scappavano dal collegio e li aspettava un giorno intero di libertà. Un giorno pieno di posti da esplorare, di fragole, di prati deserti bruciati dal sole, lucertole, acque fresche che sgorgavano inaspettatamente tra le rocce. E come sempre si sentiva sopraffare dal desiderio di gridare e di saltare. Anton lo osservava, ridendo allegramente, e Pashka vide nei suoi occhi che aveva capito. Anka mise due dita in bocca e lanciò un fischio penetrante. Entrarono tutti e tre nella foresta.

Era un bosco di pini; la vegetazione era rada. I piedi slittavano sul terreno scivoloso e coperto di aghi. I raggi del sole penetravano obliqui tra gli alberi, facendo danzare macchie dorate sul terreno. Nell’aria c’era odore di resina, di lago e di fragole. Da qualche parte, in alto, cinguettava un’allodola.

Anka camminava davanti agli altri. Con una mano teneva la balestra e con l’altra ogni tanto coglieva le fragole che occhieggiavano tra il fogliame, rosse come il sangue. Anton camminava dietro di lei con il solido equipaggiamento da combattimento del Maresciallo Totz sulle spalle. La faretra, piena di robuste frecce da guerra, a ogni passo gli urtava ritmicamente il fondo dei pantaloni. Guardò il collo di Anka: era abbronzato, e le vertebre sporgevano come nodi. D’un tratto si voltò, cercando Pashka che era scomparso; ma nel sole, ogni tanto, brillava il suo fez rosso.

Anton immaginò l’amico che strisciava silenzioso tra i pini, pronto a sparare con il fucile ad aria, con il viso scarno e il naso aquilino puntato in avanti come un animale da preda. Pashka che strisciava nel sottobosco. Ma la foresta non ha pietà. «Ti sfida, e devi reagire immediatamente» pensò Anton. Stava quasi per piegarsi… Ma Anka camminava davanti, e avrebbe potuto voltarsi in qualunque momento. Sarebbe sembrato davvero uno stupido!

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