Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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È difficile essere un dio: краткое содержание, описание и аннотация

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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«Non è indispensabile che sia una mela!» disse. «Questo sarà un ottimo bersaglio.

Dai, giochiamo a Guglielmo Tell!»

Anton prese in mano il cono rosso e lo esaminò attentamente. Guardò Anka. I suoi occhi erano scuri come un pozzo. Pashka faceva salti di gioia. Si sentiva importante.

Anton gli diede il cono.

«Riesco a colpire il centro del bersaglio da una distanza di trenta passi» disse con indifferenza. «Naturalmente solo con una pistola che conosco».

«Davvero?» chiese Anka, e si rivolse a Pashka.

«E tu? Sei capace di centrare il bersaglio da trenta passi?»

«Ho fama di essere il tiratore più veloce su questa sponda del lago!» sorrise.

«Proviamo».

Anton fece dietro-front e cominciò a camminare lungo il sentiero, contando ad alta voce, «…quindici… sedici… diciassette…»

Pashka disse qualcosa che Anton non riuscì a sentire, e Anka rise, a voce troppo alta.

«Trenta» esclamò Anton, e si voltò.

A quella distanza Pashka sembrava piccolissimo. Il cono rosso sembrava un cappello da somaro. Sorrideva. Stava ancora giocando. Anton si chinò e sollevò con facilità la balestra.

«Dio vi benedica, padre mio!» gli gridò Pashka. «E qualunque cosa succeda, grazie di tutto!»

Anton mise un proiettile nella fessura. Si raddrizzò. Pashka e Anka lo guardarono, in piedi l’uno accanto all’altra. Il sentiero si allungava fra loro come un passaggio umido e buio tra due alte mura verdi. Anton sollevò la balestra. L’equipaggiamento da guerra del Maresciallo Totz sembrava diventato improvvisamente pesantissimo.

«Mi tremano le mani» pensò Anton. «Brutto segno. Che assurdità!» Ricordò che l’inverno prima lui e Pashka si erano divertiti a tirare palle di neve per un’ora contro un ghiacciolo su uno steccato. Avevano tirato da una distanza di venti piedi, poi quindici, poi dieci, senza riuscire a colpirlo. E infine, quando si erano stancati del gioco e avevano quasi deciso di lasciar perdere, Pashka aveva lanciato un’ultima palla, senza neppure prendere la mira, e aveva fatto centro.

Anton premette il calcio contro la spalla. «Anka gli sta troppo vicino» pensò. Stava quasi per gridarle di spostarsi un po’, ma gli venne in mente che avrebbe fatto la figura dello stupido. Più alto… Ancora più alto… Più alto… Improvvisamente fu sicuro che il proiettile avrebbe colpito l’amico in mezzo agli occhi, si sarebbe conficcato profondamente tra quegli occhi verdi e allegri, anche se si fosse voltato e avesse scoccato la freccia nella direzione opposta.

Aprì gli occhi e guardò Pashka. Il suo sorriso era scomparso. Anka sollevò lentamente la mano, poi allargò piano le dita. Sul suo viso c’era un’espressione intensa, matura. Anton alzò ancora un po’ la balestra e tirò. Non riuscì a seguire il volo della freccia.

«Mancato!» disse a voce alta.

Si avviò sul sentiero, ma le gambe non volevano obbedirgli. Pashka si strofinò il cono rosso sul viso, si scrollò come un cane bagnato, srotolò il cono e gli ridiede la forma originale. Anka si chinò per raccogliere la sua balestra. «Se me la spacca in testa» pensò Anton «le dico anche grazie». Ma lei non lo degnò di uno sguardo.

Si rivolse invece a Pashka e gli chiese: «Ce ne andiamo?»

«Subito» rispose lui.

Guardò Anton, battendosi la fronte con un dito.

«Ma anche tu hai avuto paura» disse Anton.

Pashka tacque. Si batté di nuovo la fronte con un dito e seguì la ragazza. Anton camminava lentamente dietro di loro, affrontando i suoi dubbi.

«Che cosa ho fatto?» pensava. Di colpo, si sentiva la testa pesantissima. «Perché sono così seccati? Pashka… be’, lui se la faceva addosso. Chissà chi era più spaventato: papà Guglielmo o suo figlio? Ma cos’ha Anka? Forse era preoccupata per Pashka. Ma che cosa avrei dovuto fare? Adesso mi lasciano indietro, neanche fossi un rinnegato. Dovrei andarmene per conto mio. Se giro a sinistra, più avanti, c’è un laghetto molto interessante. Potrei anche catturare un gufo. Non sarebbe bello?» Ma non rallentò neppure. «Meglio così» si disse.

Aveva letto da qualche parte che queste cose accadevano spesso.

Raggiunsero la Strada Dimenticata più in fretta di quanto avessero pensato. Ormai il sole era alto, e faceva molto caldo. Gli aghi di pino pungevano la pelle nuda. La strada era lastricata di cemento: due corsie di blocchi crepati, grigio-rossastri. Ciuffi di erba secca spuntavano tra le crepe.

Sui bordi, ai due lati, crescevano cardi polverosi. Tutto intorno volavano grossi mosconi ronzanti, e uno, dai colori metallici, urtò contro la fronte di Anton. L’aria era immobile, soffocante.

«Voi due, guardate!» esclamò Pashka.

Indicò un cartello tondo di metallo, sospeso a un cavo arrugginito teso in mezzo alla strada. La vernice era tutta scrostata. Si distingueva a malapena una striscia orizzontale su un fondo rosso.

«Che cos’è?» chiese Anka. Non sembrava molto interessata.

«Un segnale stradale» spiegò Pashka. «Vietato l’accesso».

«Strada a senso unico» disse Anton.

«Che significa?» domandò Anka.

«Vuol dire che non si può entrare» disse Pashka.

«E allora perché hanno fatto la strada?»

Pashka si strinse nelle spalle.

«È una strada vecchissima».

«È una strada anisotropa» spiegò Anton. Anka gli volgeva le spalle. «Il traffico segue una direzione sola».

«La saggezza dei nostri avi» disse Pashka pensosamente. «Guidi tranquillo per duecento miglia e improvvisamente crac, bam, ‘Vietato l’accesso’! ‘Senso unico’! E non puoi andare avanti, e non c’è nessuno a cui chiedere».

«Pensate a cosa può esserci dall’altra parte di quel segnale stradale!» esclamò Anka. Si guardò intorno. Chilometri e chilometri di foresta deserta, e nessuno a cui chiedere cosa ci fosse dietro quel cartello. «Forse non indica affatto una strada anisotropa» disse. «La vernice è quasi tutta scrostata».

Anton imbracciò la balestra, prese accuratamente la mira e tirò. Sarebbe stato bello se la freccia avesse colpito il cavo facendo cadere il cartello proprio ai piedi di Anka.

Ma la freccia colpì la parte superiore del disco, attraversò il metallo arrugginito e fece cadere solo qualche frammento di vernice secca.

«Cretino!» disse Anka senza neanche voltarsi.

Erano le prime parole che gli rivolgeva da quando avevano giocato a Guglielmo Teli. Anton sorrise, mortificato.

«E imprese di gran livello e importanza» recitò «a questo sguardo inverton la corrente e perdono il nome di azione».

Il fedele Pashka gridò: «Ehi, ragazzi, di qui è passata una macchina! Dopo il temporale. Sull’erba c’è ancora il segno delle ruote! E qui…»

«Sempre fortunato, lui» pensò Anton. Esaminò attentamente le tracce delle gomme.

Anche lui vide l’erba ammaccata e i segni di una frenata improvvisa davanti a una buca nel cemento.

«Capisco» gridò Pashka. «La macchina dev’essere venuta dall’altra parte, da dietro il cartello».

Sembrava ovvio, ma Anton disse: «Balle! Veniva dall’altra parte!»

Pashka lo guardò sorpreso.

«Ma che dici? Sei cieco come una talpa!»

«È venuta da questa parte. Seguiamo le tracce».

«Sei un idiota!» Pashka sembrava arrabbiato. «Secondo te una persona normale andrebbe nel senso contrario a quello della strada? Guarda qua: qui c’è la buca, e là i segni della frenata… Allora, da dove veniva la macchina?»

«Non mi interessa! Seguirò questa strada anche se è senso vietato».

Pashka impallidì dalla rabbia. «Allora vai pure!» Gli venne il singhiozzo. «Che idiozia! Il sole deve averti cotto il cervello».

Anton si voltò. Guardò dritto davanti a sé, si chinò sotto il cartello e passò dall’altra parte. Sperava solo di trovare un ponte crollato e di dover tornare indietro. «Con loro non ho più niente da spartire» pensò. «Vadano dove gli pare. Lei e il suo caro Pashka». Poi gli venne in mente come l’aveva interrotto quando l’aveva chiamata Anecka, e sentendosi un po’ sollevato, si voltò e si guardò indietro. Lo sguardo gli cadde su Pashka. Come un cane che annusava una traccia, Don Sarancha seguiva i segni lasciati dalla macchina misteriosa. Il cartello arrugginito oscillava piano sopra la strada, e il cielo azzurro brillava nel foro lasciato dalla freccia. Anka era seduta sul ciglio della strada con i gomiti puntati sulle ginocchia, il mento appoggiato sui piccoli pugni.

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