Don Reba si fermò, corrugò la fronte e guardò Rumata in modo significativo.
Rumata alzò gli occhi al soffitto, sorridendo estasiato. Era vero, aveva rapito Arata il gobbo con un elicottero. Sui carcerieri di Arata aveva fatto grande impressione. A dire il vero, anche su Arata. «Sono davvero in gamba, devo ammetterlo» si disse.
«Avevo fatto un ottimo lavoro».
«Sarà anche al corrente del fatto che il suddetto Arata si trova ora nel settore est della capitale, capeggia un esercito di schiavi ribelli che sta spargendo molto sangue nobile, e dispone di denaro e di armi».
«Non mi è difficile crederlo» rispose Rumata. «Mi aveva dato l’impressione di essere un uomo molto deciso».
«Allora confessa?»
«Cosa?» chiese sorpreso Rumata.
Tacquero un momento, guardandosi negli occhi.
«Continuerò» disse Don Reba. «Per salvare tutti questi corruttori di anime, voi, Don Rumata, avete speso almeno cento libbre d’oro, secondo i miei calcoli approssimati per difetto. Tacerò sul fatto che il contatto con queste forze del male ha dannato la vostra anima per l’eternità. E anche sul fatto che non avete ricevuto una sola moneta di rame dalle vostre proprietà estoriane da quando siete arrivato ad Arkanar; certo, dopotutto, perché avreste dovuto ricevere del denaro? Perché mandare del denaro a un morto, anche se si tratta di un parente? Ma il suo oro! Il suo oro!»
Aprì un forziere che era rimasto sepolto sotto una pila di carte sulla scrivania, e prese una manciata di monete d’oro con il profilo di Pitz Sesto.
«Quest’oro sarebbe stato sufficiente per farla mandare al rogo!» gridò. «Quest’oro è opera del demonio! Mani umane non possono produrre oro di questa purezza!»
Stava letteralmente trafiggendo Rumata con lo sguardo. «Devo ammettere onestamente che mi ha incastrato» pensò Rumata. «Touché. A questo non avevamo pensato. Bisogna dargliene atto: è stato il primo e l’unico ad accorgersene…» Ma Don Reba ridivenne improvvisamente gentile. Nella sua voce apparve un tono paterno e sollecito.
«E, in generale, lei si sta comportando con molta imprudenza, Don Rumata. Mi sono sempre preoccupato per lei. Che duellante, che seminatore di zizzania!
Centoventisei duelli in cinque anni! Senza mai uccidere nessuno… alla resa dei conti se ne potrebbero trarre delle conclusioni. Io, per esempio, l’ho fatto. E non sono l’unico. Prendete per esempio Frate Aba. Be’, anche se non si dovrebbe mai sparlare dei morti, era davvero un uomo crudele, e non ho mai potuto sopportarlo… Ebbene, Frate Aba aveva scelto non gli uomini più abili, ma quelli più grandi e grossi per farla arrestare. E alla fine ha avuto ragione. Qualche spalla slogata, qualche vertebra fratturata, qualche dente rotto… Ed eccola davanti a me! Ma non poteva sapere che per lei era questione di vita o di morte. Lei è un maestro! Indubbiamente il migliore spadaccino del paese. E ha indubbiamente venduto l’anima al diavolo, perché solo all’inferno si può imparare questa tecnica irraggiungibile. Sarei quasi propenso ad ammettere che questa abilità le sia stata data a condizione di non uccidere nessuno.
Per quanto mi sia difficile immaginare perché il demonio dovrebbe insistere su una clausola come questa. Ma è un problema che spetta ai teologi risolvere…»
Un urlo acuto e penetrante, come lo squittio di un maiale, interruppe le considerazioni di Don Reba. Seccato, guardò le pesanti tende lilla, dietro le quali si sentiva il rumore di persone che si azzuffavano. Si sentiva rumore di pugni, calci, qualcuno che gridava: «Lascia andare! Lascia andare!» e poi voci grossolane che imprecavano e gridavano in un dialetto incomprensibile. Improvvisamente la tenda si strappò e cadde a terra. Nello studio entrò carponi barcollando un uomo calvo, con il mento che sanguinava e gli occhi spalancati. Delle grosse mani uscirono da una fessura tra le tende, afferrarono l’uomo per i piedi e lo trascinarono dall’altra parte.
Rumata lo riconobbe: era Budach.
Urlava come un animale ferito: «Tradito! Sono stato tradito! Era veleno! Perché?»
Lo fecero sparire nell’oscurità. Un uomo vestito di nero prese svelto la tenda caduta e la riappese al suo posto. Il silenzio improvviso fu interrotto dai rumori disgustosi che provenivano da dietro la tenda. Qualcuno stava vomitando. Rumata capì.
«Dov’è Budach?» chiese bruscamente.
«Come può vedere, ha avuto un piccolo incidente» rispose Don Reba, ma era chiaro che non era più sicuro di sé come prima.
«Non cercate di confondermi» disse Rumata. «Dov’è Budach?»
«Mio caro Don Rumata» cominciò Don Reba, scuotendo la testa. Si era ripreso.
«Cosa vuole da Budach? Forse è vostro parente? Fino a ora non vi siete mai interessato a lui».
«Mi ascolti, Reba». Rumata era diventato una furia. «Non scherzo. Se a Budach succede qualcosa, la strozzo con le mie mani! Morirà come un cane!»
«Difficile» disse svelto Don Reba. Era pallidissimo.
«Uno sciocco, Reba, ecco cos’è lei. Un maestro d’intrighi che in realtà non sa da che parte voltarsi. Non ha mai giocato un gioco pericoloso come questo. E non se ne rende conto».
Il ministro si chinò sulla scrivania, con gli occhi come carboni ardenti. Anche Rumata sapeva di non essersi mai trovato in una situazione precaria come quella. Era ora di scoprire le carte: si sarebbe visto chi aveva la mano vincente. Rumata contrasse i muscoli, pronto a scattare. Non c’era arma, freccia o lancia che potesse ucciderlo all’istante: era scritto sul viso di Don Reba. E lui voleva continuare a vivere. «Cosa vuole?» chiese piagnucolando. «Abbiamo fatto una bella chiacchierata… Il suo Budach è vivo. Vivo e vegeto. Uno di questi giorni mi curerà anche. Non perda la calma».
«Dov’è Budach?»
«Nella Torre della Gioia».
«Ho bisogno di lui!»
«Anch’io, Don Rumata».
«Mi ascolti, Reba: non mi provochi. E la smetta di fingere. Ha paura di me. E fa bene. Budach è mio, ha capito? Mio!»
Ora erano tutti e due in piedi, uno di fronte all’altro. Il viso di Don Reba divenne uno spettacolo allarmante: si fece cianotico, cominciò a storcere febbrilmente le labbra e a parlare tra sé e sé sputando saliva.
«Scarafaggio!» sibilò. «Io non ho paura di nessuno! Ti posso schiacciare come una mosca!»
Si voltò con uno scatto e abbassò un arazzo appeso dietro di sé. Apparve una grande finestra. «Ecco, guarda!»
Rumata andò alla finestra. Si apriva sulla piazza di fronte al palazzo. Stava albeggiando. Nel cielo si levava il fumo di molti incendi. La piazza era cosparsa di cadaveri. In mezzo si vedeva una massa nera rettangolare, completamente immobile.
Rumata osservò meglio. Era un gruppo di cavalieri allineati con precisione straordinaria. Indossavano lunghi mantelli neri, con il cappuccio nero calato sugli occhi, e reggevano con la sinistra uno scudo nero triangolare mentre con la destra tenevano la lancia.
«Prego» disse Don Reba con voce stridula. Tremava. «I valorosi e marziali figli del Signore nostro Dio: la cavalleria del Sacro Ordine. Sono sbarcati nottetempo nel porto di Arkanar per schiacciare la barbara insurrezione del ribaldo Waga Koleso, alleatosi con quegli arroganti dei mercanti e dei bottegai. La ribellione è stata domata.
Il Sacro Ordine adesso domina la città e la nazione intera, che da ora si chiama Provincia Arkanariana del Sacro Ordine…»
Istintivamente, Rumata si grattò la nuca. «Così ecco di che si tratta! Questa è la gente a cui quei disgraziati bottegai hanno spianato la strada. Che colpo da maestro!» Don Reba sorrideva trionfante.
«Non ci siamo ancora presentati come si deve» continuò l’altro con la stessa voce stridula. «Mi permetta di presentarmi: Don Reba, rappresentante del Sacro Ordine nella Provincia Arkanariana. Vescovo e Consigliere di Guerra, servo di nostro Signore!»
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