Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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È difficile essere un dio: краткое содержание, описание и аннотация

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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«Che bel passatempo era stato per i gentiluomini accodarsi a qualche monaco solitario che camminava per la strada e raccontarsi storielle oscene proprio sotto il suo naso. Stupido che sono. Facevo finta di essere ubriaco e camminavo dietro di loro, ridendo di gioia perché il paese, se non altro, era immune dal fanatismo religioso. Ma che altro avremmo dovuto fare? Davvero, che altro avremmo dovuto fare?» «Chi è?» chiese una voce.

«Apri, Muga, sono io» disse piano Rumata.

I chiavistelli scattarono. La porta si aprì leggermente e Rumata s’infilò nella stretta fessura. Nell’atrio tutto era come al solito, e Rumata tirò un sospiro di sollievo. Il vecchio Muga con i capelli argentei e la testa perennemente tremolante prese l’elmetto e le spade del padrone.

«Come sta Kyra?»

«Kyra è di sopra. Sta bene».

«Magnifico» disse Rumata slacciandosi la cintura. «E dov’è Uno? Perché non è qui ad accogliermi?» Muga prese la cintura.

«Uno è morto» disse con voce calma e decisa. «È nelle stanze della servitù».

Rumata chiuse gli occhi.

«Uno è morto…» ripeté. «Chi l’ha ucciso?»

Senza aspettare la risposta, andò a vedere. Il cadavere di Uno era disteso sul tavolo.

Era coperto da un lenzuolo fino alla vita. Aveva le mani piegate sul petto, gli occhi spalancati e la bocca distorta in una smorfia. I servitori erano radunati intorno al tavolo, a capo chino, e ascoltavano i mormorii del monaco che pregava in un angolo.

La cuoca singhiozzava. Senza distogliere lo sguardo dal ragazzo, Rumata si sbottonò il colletto.

«Cani maledetti!» esclamò. «Bestie schifose!»

Inciampando in qualcosa si avvicinò al tavolo, guardò quegli occhi senza vita, alzò leggermente il lenzuolo e lo lasciò ricadere subito.

«Sì, troppo tardi» disse. «Troppo tardi. Bastardi! Chi l’ha ucciso? I monaci?»

Si voltò verso il monaco, lo afferrò per la collottola, lo gettò a terra e si chinò sul suo viso.

«Chi l’ha ucciso?» chiese. «È stato uno di voi? Parla!»

«No, non i monaci» disse una voce calma dietro di lui. «Sono stati i soldati Grigi».

Rumata guardò per un momento il viso emaciato del monaco, le cui pupille cominciavano lentamente a dilatarsi. «In nome del Signore» piagnucolò. Rumata lo lasciò andare, si sedette su una panca ai piedi del cadavere e cominciò a piangere. Si coprì il viso con le mani, e ascoltò la voce quieta e monotona di Muga. Il vecchio disse che, poco dopo la seconda veglia, avevano sentito bussare al portone. Uno aveva gridato di non aprire, ma erano stati costretti a farlo quando i soldati Grigi avevano minacciato di incendiare la casa. Erano entrati a forza, avevano picchiato e legato i servi, poi avevano salito le scale. Uno faceva la guardia di sopra. Il ragazzo aveva cominciato a tirare con la balestra. Aveva due colpi e li aveva tirati entrambi.

La seconda freccia aveva mancato il bersaglio. I Grigi avevano lanciato i coltelli e Uno era caduto. Lo avevano trascinato giù dalle scale e stavano già per prenderlo a calci e colpirlo con le mannaie, quando, improvvisamente, erano entrati in casa i monaci neri. Avevano ucciso due Grigi e disarmato gli altri, quindi avevano legato loro delle corde intorno al collo e li avevano trascinati in strada.

Muga tacque. Ma Rumata restava seduto con i gomiti appoggiati sul tavolo davanti ai piedi del ragazzo morto. Si alzò lentamente, si asciugò gli occhi con la manica, baciò la fronte fredda del giovane. Poi salì di sopra, facendo un passo dopo l’altro con uno sforzo enorme.

Non si reggeva in piedi per la fatica e la debolezza. Si sforzò di arrivare al pianerottolo e attraversò la stanza degli ospiti per andare al suo letto. Cadde a faccia in giù sul cuscino con un gemito. Kyra accorse, ma lui era così distrutto da non riuscire neppure ad aiutarla a togliergli i vestiti sporchi. La ragazza gli sfilò gli stivali, pianse vedendo il suo viso martoriato, gli levò l’uniforme e la maglia di metalloplast e continuò a piangere silenziosamente sul suo corpo pieno di lividi. Ora, improvvisamente, lui sentì che gli facevano male le ossa, come se lo avessero messo sulla ruota di tortura. Mentre Kyra gli passava una spugna inzuppata d’acqua e aceto, Rumata ansimava e sibilava, con gli occhi chiusi: «Avrei potuto ucciderlo… Mi stava proprio di fronte… Strozzarlo con le mie mani… È vita questa, Kyra? Andiamocene da qui… In fondo l’esperimento lo stanno facendo su di me, non su di loro…» Non si rese neppure conto di parlare nella sua lingua originaria. Kyra lo guardò ansiosamente con gli occhi lucidi di lacrime e gli tempestò le guance di baci. Dopo averlo coperto con le lenzuola rammendate (Uno non ne aveva comprate di nuove nonostante gli ordini del padrone), Kyra corse di sotto a preparargli del vin brulé.

Gemendo per il dolore fisico e psichico, Rumata scese dal letto e si trascinò nello studio. Aprì un cassetto segreto nella scrivania, frugò nel contenitore delle medicine e prese alcune pastiglie di Sporamina. Quando Kyra ritornò con un bricco fumante su un vassoio d’argento, era già tornato a letto. Sentì che il dolore lo abbandonava, che il ronzio nelle orecchie si affievoliva, e che il corpo recuperava le forze. Bevve tutto il contenuto del bricco e presto si sentì meglio. Poi chiamò Muga e gli disse di far preparare i suoi vestiti.

«Non andare, Rumata» disse Kyra. «Non andare! Resta a casa!»

«Devo andare, cara!»

«Ho paura. Resta qui… Ti uccideranno!»

«Non dire così. Perché dovrebbero uccidermi? Hanno tutti paura di me, no?»

Lei ricominciò a piangere, ma silenziosamente, come per timore di dargli fastidio.

Rumata la fece appoggiare sul suo grembo e le accarezzò dolcemente i capelli.

«Il peggio è passato» disse. «E ricordati che ce ne andremo…»

Lei si calmò e si strinse a lui. Muga aspettava paziente, tenendo in mano i pantaloni di Rumata ornati di campanelli d’oro.

«Ma prima di andarcene, ho molto da fare» continuò Rumata. «Stanotte sono stati uccisi a migliaia. Devo scoprire chi è ancora vivo e chi è stato ammazzato. E devo aiutare chi è ancora in pericolo».

«E chi aiuterà te?»

«Fortunato l’uomo che pensa solo agli altri… E inoltre, qualcuno molto potente verrà in nostro soccorso, se necessario».

«Non riesco a pensare agli altri. Sei tornato a casa più morto che vivo. Lo vedo con i miei occhi come ti hanno picchiato. E Uno è stato ucciso. Dov’era questa potenza quando ne avevi bisogno? Perché non ha impedito tutti questi massacri? Io non ti credo… Non ti credo…»

Kyra cercò di liberarsi dal suo abbraccio, ma lui la tenne stretta.

«E stata solo sfortuna» le disse. «Questa volta sono arrivati un po’ troppo tardi. Ma adesso ci stanno guardando di nuovo e ci proteggeranno. Perché oggi non mi credi?

Mi hai sempre creduto. Non lo vedi da te? Sono tornato a casa mezzo morto, e adesso guardami!»

«Non ho voglia di guardarti» disse lei, nascondendosi il viso. «Non voglio ricominciare a piangere».

«Su, su! Per questi graffi? Non è niente! Adesso il peggio è passato… Almeno per noi due. Ma ci sono persone perbene per le quali non è così. E devo aiutarle».

Lei sospirò, lo baciò sul collo e si liberò piano dal suo abbraccio. «Torna stanotte»

lo implorò. «Tornerai?»

«Puoi contarci» rispose con sicurezza. Sorrise. «Sarò a casa prima che faccia notte, e molto probabilmente non da solo. Sarò di ritorno per cena».

Kyra andò verso una poltrona, si sedette, si abbracciò un ginocchio con le mani e stette a guardare Rumata che si vestiva. Mentre si infilava i pantaloni questi parlava tra sé nella sua lingua originaria. Muga era seduto per terra a gambe incrociate davanti a lui, e cominciò ad allacciargli i bottoni e le fibbiette. Rumata indossò una maglietta pulita sotto la maglia di metalloplast. Infine disse, con tono disperato: «Cara, ti prego, cerca di capire! Devo andare! Che cosa posso fare? È fuori discussione che io rimanga qui!»

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