L’ufficiale non alzò gli occhi.
«Don Rumata… Don Rumata» borbottò, spinse da parte la mano di Rumata e fece scorrere il dito su una lista di nomi.
«Ma che stai facendo, scribacchino? Mi serve un ordine di scarcerazione!» disse Rumata.
«Don Rumata… Don Rumata». Impossibile scalfire l’automatismo fossilizzato del burocrate. «Via Spengler numero 8. Numero 16, Frate Tibak». Rumata, si accorse che tutti, dietro di lui, trattenevano il respiro. Ma per essere sinceri, anche lui si sentiva leggermente a disagio. Frate Tibak, con la faccia rossa e sudata, si alzò in piedi.
«Numero 16, Don Rumata, Via Spengler numero 8, per servizi speciali a favore della causa del Sacro Ordine, riceve un’espressione di ringraziamento particolare da Sua Magnificenza. Sua Magnificenza concede quindi graziosamente un editto per il rilascio del dottor Budach, della cui persona gli sarà permesso di disporre a sua discrezione, vedi modulo 6/17/11».
L’ufficiale procedette subito a estrarre il modulo dalla pila di documenti alla sua destra e lo diede a Don Rumata.
«Dopo la porta gialla, secondo piano, stanza sei, in fondo al corridoio, la prima a destra e poi la prima a sinistra» disse senza muovere neppure un muscolo. «Il prossimo».
Rumata scorse velocemente il contenuto del documento. Non era un ordine di rilascio per il dottor Budach. Era solo un documento per ottenere un permesso di entrata nel quinto dipartimento speciale della cancelleria, dove avrebbe potuto ritirare una raccomandazione per il segretario della polizia segreta. «Che cosa mi hai dato, imbecille! Dov’è l’ordine ufficiale di rilascio?» chiese.
«Dopo la porta gialla, secondo piano, stanza sei, in fondo al corridoio, la prima a destra e poi la prima a sinistra» ripeté l’ufficiale.
«Ti ho chiesto dov’è l’ordine di rilascio!» gridò Rumata.
«Non ne ho la più pallida idea… Assolutamente… Il prossimo!»
Sopra le orecchie Rumata sentì un respiro ansimante e qualcosa di morbido contro la schiena. Si scostò con un movimento rapido e risoluto. Era Don Pifa, che era tornato indietro.
«Non è della mia misura» si lamentò.
L’ufficiale alzò lo sguardo e lo guardò con i suoi occhi vuoti e stanchi.
«Nome? Rango?» chiese.
«Non mi va bene» ripeté Don Pifa, spingendo con forza il braccialetto che non riusciva a passare neppure attraverso tre dita.
«Non va bene… Non va bene…» mormorò uno degli ufficiali, e afferrò subito un librone che stava in un angolo della scrivania. Il libro aveva un aspetto minaccioso, con la sua copertina nera e unta. Per un attimo Don Pifa fissò confuso il libro, poi fece un passo indietro e senza dire più niente si avviò verso l’uscita. Dalla fila delle voci cominciarono a lamentarsi: «Non farci aspettare! Vuoi sbrigarti?»
Anche Rumata si allontanò dalla scrivania. «Bestia schifosa, ti faccio vedere io!» pensò. L’ufficiale cominciò a leggere ad alta voce il libro: «Nel caso che detto braccialetto non si adatti al polso sinistro, o che la persona purificata non abbia una mano sinistra…» Rumata girò attorno alla scrivania, mise tutte e due le mani nella cassetta dei braccialetti, ne prese più che poteva e se ne andò.
«Ehi, ehi» gridava l’ufficiale, sempre con la stessa voce monotona. «Il motivo…»
«In nome del Signore» disse Rumata con enfasi significativa, senza voltarsi.
L’ufficiale e Frate Tibak si alzarono subito in piedi e risposero confusi: «Nel Suo nome!» La gente in coda guardava ammirata e invidiosa Rumata che si allontanava.
Rumata uscì dalla cancelleria e andò verso la Torre della Gioia, facendo tintinnare allegramente i cerchietti di ferro. Si accorse di aver preso nove braccialetti, ma che al polso sinistro ce ne stavano solo cinque, così infilò gli altri quattro al destro. «È così che il vescovo di Arkanar voleva sbarazzarsi di me» pensò. «Be’, ha sbagliato persona!» I braccialetti di metallo tintinnavano a ogni passo, e Rumata teneva in mano un pezzo di carta dall’aria importante, il modulo 6/17/11, decorato da bolli multicolori. I monaci che camminavano o cavalcavano per strada lo evitavano accuratamente. Ogni tanto scorgeva tra la folla la sua spia e guardia del corpo, che si teneva sempre a rispettosa distanza. Rumata arrivò al cancello della Torre della Gioia. Fece tintinnare minacciosamente le spade davanti alla guardia che allungava il collo con curiosità, ma che si ritirò subito. Rumata attraversò il cortile e scese, nella semioscurità interrotta solo dal bagliore di rozze lampade a olio, gli scalini consunti e scivolosi. Era l’entrata del sancta sanctorum dell’ex ministro della Sicurezza Interna, la prigione reale con le sale di tortura.
Ogni dieci passi, lungo il corridoio a volta, c’era una torcia puzzolente fissata a un sostegno arrugginito. Sotto ogni torcia c’era una nicchia simile a una caverna, che terminava in una porta nera con una finestrella provvista di sbarre. Era l’entrata delle celle. All’esterno le porte erano sprangate da pesanti chiavistelli. I corridoi brulicavano di gente che si urtava, correva avanti e indietro, gridava, cercava di dare ordini. I chiavistelli sferragliavano e sbattevano, le porte venivano aperte e chiuse, qualcuno veniva picchiato e urlava di dolore, un altro cercava disperatamente di aggrapparsi alle grate mentre lo trascinavano via, un prigioniero veniva spinto in una cella già sovraffollata, e un altro condannato, che alcuni uomini cercavano di trascinare fuori da una cella, si stringeva a un compagno gridando. I visi dei monaci erano pieni di zelo. Andavano tutti di fretta, tutti svolgevano mansioni importantissime per lo Stato. Rumata decise di scoprire che cosa stava succedendo là dentro. Si aggirò indisturbato in vari corridoi, scendendo sempre di più. I piani inferiori erano un po’ più calmi. Basandosi sulle indiscrezioni che aveva captato, era lì che venivano esaminati i diplomati alla Scuola dei Patrioti. Vestiti solo di pantaloni di cuoio, i ragazzi stavano in piedi davanti alle porte delle sale di tortura, sfogliavano vecchi manuali unti e ogni tanto andavano a bere un po’ d’acqua da una tinozza servendosi di una coppa legata al muro con una catena. Dalle stanze provenivano grida orribili, il rumore delle frustate e l’odore inconfondibile della carne bruciata. E i loro discorsi! Oh, quei discorsi!
«Sai, la ruota ha una vite in cima, che si era consumata ed era caduta. È colpa mia, dico io? Mi ha fatto frustare per questo. ‘Schifoso, porco’ mi ha detto. ‘Imbecille, vai a farti dare cinque frustate sul sedere nudo. Poi torna qui’«.
«Se solo riuscissimo a scoprire chi è che dà le frustate. Forse è uno di noi, uno studente. Potremmo alleggerirgli la mano, basterebbe qualche moneta di rame…» «Quando si ha sottomano un grassone, le spine non gli lasciano segni nella carne.
La cosa migliore è prendere un paio di chiodi incandescenti e spingergli via un po’ di lardo…» «Sì, ma le catene di Dio servono solo per torturare le gambe, e i guanti del martire, quelli con i chiodi, servono per le mani, ti ricordi?» «Fratelli, sono quasi scoppiato, ho riso tanto! Entro per dare un’occhiata, e chi ti vedo? Fika il rosso, il macellaio del mio quartiere che mi tirava sempre le orecchie quando era ubriaco. Adesso tocca a me, mi sono detto, aspetta un po’…» «E Pekor, quello con le labbra grosse, è stato portato via dai monaci stamattina.
Non è ancora tornato. Non si è visto neanche all’esame».
«Dovevo lavorare al tritacarne, ma per caso ho preso l’uomo di fianco. Be’, si sono rotte un po’ di costole, e allora? Avreste dovuto vedere Padre Kin! Mi prende per i capelli e mi dà dei calci con gli scarponi. Ragazzi, che mira! Ho visto le stelle! ‘Che ti salta in mente?’ mi grida. ‘Stai danneggiando le proprietà!’««Date un’occhiata, amici» pensò Rumata, girando lentamente la testa per inquadrare tutta la scena. «Venite a vedere. Qui non si tratta solo di teorie: sulla Terra non si è mai visto niente di simile. Guardate, ascoltate, registrate tutto! E imparate ad apprezzare e ad amare la nostra vita sulla Terra, maledizione, inchinatevi per onorare la memoria di quelli che sono vissuti in epoche come questa! Osservate bene questi visi ripugnanti, giovani, ottusi, indifferenti, abituati alle peggiori bestialità; ma non inorgoglitevi. I nostri antenati, ai loro tempi, non erano affatto migliori».
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