Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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Ormai gli studenti si erano accorti di lui. Una ventina di occhi di tutti i colori lo osservavano.

«Ehi, guarda, il signore si degna di venirci a trovare. La pappagorgia è un po’ pallida, eh, messere?»

«Ma come! Credevo che li avessimo sistemati tutti!»

«Dicono che in questi casi gli mettono davanti dell’acqua, ma gli lasciano una catena troppo corta per riuscire a raggiungerla…»

«Perché è venuto a ficcare il naso qui?»

«Mi piacerebbe mettergli le mani addosso. Scommetto che risponderebbe a tutto, confesserebbe ogni cosa…»

«Basta! Parlate più piano! È capace di sguainare la spada senza preavviso, state attenti… Guardate quanti braccialetti ha, e quel pezzo di carta!»

«Non mi piace come ci sta guardando. Andiamocene, ragazzi. Non voglio immischiarmi con questi individui!»

Finalmente si allontanarono, nascondendosi in qualche angolo buio. Solo i lampi degli occhi sospettosi ogni tanto ne rivelavano la presenza. «Meglio essersene sbarazzati» si disse Rumata. «Non mi seccheranno più». Stava per fermare uno dei monaci che si affrettavano lungo il corridoio, quando vide in un angolo altri tre monaci che sembravano meno di fretta e si concentravano con calma sulla loro occupazione. Stavano bastonando un boia, probabilmente colpevole di qualche insubordinazione. Rumata si avvicinò.

«In nome del Signore» disse, facendo tintinnare i braccialetti.

I monaci abbassarono i bastoni e lo osservarono.

«Nel Suo nome» disse il più alto dei tre.

«Portatemi dal supervisore di sezione!» gridò Rumata.

I monaci si scambiarono degli sguardi veloci. Intanto, il boia si rannicchiò dietro una tinozza.

«Di cosa avete bisogno?» chiese il monaco più alto.

Senza parlare, Rumata gli mise il documento sotto il naso.

«Aha. Bene. Al momento il supervisore di questa sezione sono io».

«Benissimo» disse Rumata, arrotolando il foglio. «Io sono Don Rumata. Sua Magnificenza mi ha fatto dono del dottor Budach. Fatelo portare qui!»

«Budach?» chiese il monaco, aggrottando la fronte. «E chi sarebbe?» Mise la mano sotto il cappuccio e si grattò la testa. «Budach il sovversivo?»

«No, no» disse un altro. «Il sovversivo si chiama Rudach. È stato rilasciato ieri notte. Padre Kin in persona gli ha tolto le catene e lo ha portato fuori. Ma…»

«Sciocchezze, sciocchezze!» sbottò Rumata, battendo il foglio arrotolato sulla coscia. «Budach è quello che ha avvelenato il Re!»

«Ahhh!» esclamò il supervisore. «Ho capito. Probabilmente è già nelle segrete.

Frate Pacca, andate a vedere al numero 12». Si rivolse ancora a Rumata: «Così voi vorreste portarlo fuori di qui?»

«Certo. Adesso appartiene a me».

«Va bene, Vostro Onore. Posso avere il foglio? Devo registrare tutto con esattezza». Rumata gli diede il modulo. Il supervisore lo esaminò da tutte e due le parti, con speciale attenzione per il sigillo, e poi disse compiaciuto: «Ecco un bel documento! Scusate, signore, potreste spostarvi un attimo e aspettare che finiamo questo lavoretto?… Ma dov’è andato il boia?»

I monaci cercarono il boia, che a quanto pareva aveva trattato i prigionieri troppo delicatamente per i gusti del nuovo padrone. Rumata si allontanò. I monaci trovarono il boia, lo tirarono fuori dal nascondiglio, lo fecero stendere sul pavimento e ricominciarono l’opera senza dimostrare passione o crudeltà particolare. Dopo cinque minuti riapparve il monaco che era stato mandato a prendere il dottor Budach.

L’uomo sbucò da una curva del corridoio tirando una corda legata al collo di un vecchio emaciato, con i capelli grigi, vestito di scuro.

«Ecco il suo uomo! Vecchio Budach!» gridò allegramente il monaco da lontano.

«Non era stato ancora gettato nelle segrete. È vivo e vegeto! Solo un po’ debole; probabilmente è un po’ che non mangia».

Rumata andò verso di loro, strappò la corda di mano al monaco e la tolse dal collo del vecchio.

«Siete Budach di Irukan?»

«Sì».

«Io sono Rumata. Mi segua e cerchi di starmi dietro!» Rumata si rivolse ai monaci: «In nome del Signore!» disse.

Il supervisore si irrigidì, lasciò cadere il bastone e rispose, ansimando: «Nel Suo nome!»

Rumata guardò Budach. Vide che il vecchio si appoggiava al muro e non si reggeva quasi in piedi.

«Ho la nausea e sono debolissimo» disse con un sorriso stanco. «Per favore mi scusi, signore!»

Rumata lo prese per un braccio e lo sorresse per tutto il corridoio. Appena furono fuori dalla portata dei monaci si fermò e prese una pillola di Sporamina da una fialetta. La diede a Budach, che gli lanciò uno sguardo interrogativo.

«La inghiotta» disse Rumata. «Si sentirà subito meglio».

Budach era ancora appoggiato al muro. Prese la pillola dalle mani di Rumata, l’esaminò accuratamente, l’annusò, aggrottò le sopracciglia pelose, poi si mise la pillola sulla lingua e l’assaggiò cautamente.

«Inghiotta, inghiotta» disse Rumata sorridendo.

Budach eseguì.

«Mmmm» disse. «E pensare che credevo di sapere tutto di medicina». Tacque di nuovo, osservando i cambiamenti che avvenivano nel suo corpo. «Interessante! Milza essiccata della scrofa selvaggia Y? No, impossibile, non sento sapore di putrefazione».

«Andiamo» disse Rumata.

Attraversarono i corridoi, salirono alcune scale, girarono in un altro passaggio.

All’improvviso Rumata si fermò. Un ruggito selvaggio e familiare riempiva le volte della prigione. Rimbombava da una delle celle, maledicendo Dio e il mondo. Era la voce tonante del suo caro amico, il barone Pampa, Don Bau de Suruga de Gatta di Arkanar. Con voce stentorea bestemmiava Dio e tutti i santi, Don Reba, il Sacro Ordine e tutti gli altri. «Cosi anche il barone è finito nelle loro grinfie» pensò tristemente Rumata. «Mi ero completamente dimenticato di lui. Lui non si sarebbe dimenticato di me…» Si tolse velocemente due braccialetti dal polso, li infilò a quello del dottor Budach e disse: «Ora salga di sopra, ma resti dentro l’edificio. Mi aspetti in qualche angolo nascosto. Se qualcuno la infastidisce gli mostri questi cerchietti di ferro e la lascerà in pace».

Il barone Pampa ruggiva e mugghiava come una rompighiaccio a propulsione atomica attraverso la nebbia polare. Sotto le volte risuonava un’eco tonante. La gente che passava nel corridoio si irrigidiva e si fermava ad ascoltare a bocca aperta. Molti si passavano velocemente i pollici sul viso per scacciare gli spiriti maligni. Rumata scese di corsa due rampe di scale, spingendo da parte i monaci che gli ostacolavano il passaggio. Con le due spade si fece largo tra gli studenti della Scuola dei Patrioti e aprì con un calcio la porta della cella. La stanza tremava per la voce tonante del barone. La luce fluttuante delle torce rivelava uno spettacolo strano. Il suo amico Pampa, quella montagna d’uomo, era stato appeso per i piedi a testa in giù, completamente nudo. Il viso gli era diventato nero-bluastro, congestionato di sangue.

A un tavolino dalle gambe contorte sedeva un ufficiale gobbo che si tappava le orecchie con le mani; un aguzzino sudato, che assomigliava chissà perché a un dentista, si affaccendava ai suoi strumenti dentro un catino di ferro.

Rumata chiuse la porta, gli si avvicinò da dietro e lo colpì in testa con l’elsa della spada. L’uomo fece un giro su se stesso, alzò le mani, perse l’equilibrio e cadde all’indietro sul catino. Rumata sguainò la seconda spada e tagliò in due il tavolino dell’ufficiale. L’aguzzino restò seduto nel catino, in preda al singhiozzo, mentre l’ufficiale correva a nascondersi carponi in un angolo. Rumata si avvicinò al barone e cercò di sciogliere le catene con cui era stato legato al muro. Al secondo tentativo riuscì a staccarle, poi aiutò l’amico a rimettersi in piedi. Il barone smise subito di ringhiare, si irrigidì in un suo atteggiamento particolare, e tirando le corde si liberò le mani.

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