Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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È difficile essere un dio: краткое содержание, описание и аннотация

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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«In fondo non mi stupisce» pensò Rumata. «Quando trionfano i Grigi, sono sempre i preti a prendere il potere. Oh, voi storici potete andare al diavolo!» Ma fece finta di niente, intrecciò le mani dietro la schiena e cominciò a dondolarsi sui tacchi.

«Adesso sono stanco» disse affettatamente. «Voglio andare a dormire. Voglio lavarmi e togliermi di dosso il sangue e gli sputi dei vostri tagliagole. Domani… Cioè oggi, diciamo un’ora dopo il sorgere del sole, verrò nel vostro ufficio. Per quel momento l’ordine di rilascio di Budach dovrà essere pronto».

«Guardi là! Ventimila uomini!» gridò Don Reba, indicando la piazza. Rumata corrugò la fronte.

«Per favore, non urli a quel modo! E ricordi, Don Reba: sono assolutamente certo che lei non sia affatto vescovo. La conosco bene. Lei è solo uno schifoso traditore, un intrigante vile e meschino…» Don Reba si leccò le labbra. I suoi occhi erano vitrei.

«Io non perdono. Per ogni schifoso gioco in cui avrà coinvolto me o qualche mio amico, pagherà con la vita! Io la odio, lo tenga bene in mente! Dovrò tollerarla, ma deve imparare fin d’ora a non intralciarmi. Capito?»

Don Reba, con un sorriso viscido, rispose: «Desidero una cosa soltanto. Voglio che sia al mio fianco, Don Rumata. Non posso ucciderla. Non so perché, ma non posso farlo!»

«Perché ha paura».

«Va bene, allora ho paura. Forse lei è il diavolo, forse il figlio di Dio. Chissà?

Oppure, forse viene da qualche regno lontano e potente: si dice che esistano davvero.

Non voglio neppure provare a sbirciare dentro l’abisso che l’ha inghiottita. Comincio a sentirmi confuso e vicino all’eresia. Sì, posso farla uccidere in qualunque momento.

Ora. Domani. Ieri… Lo capisce questo?»

«La cosa non mi interessa».

«E allora? Che cosa le interessa?»

«Niente» rispose Rumata. «Voglio solo divertirmi. Non sono né un demone né un dio, sono il Cavalier Rumata di Estor, un gentiluomo, un cortigiano, oppresso dalle proprie idiosincrasie e dai propri pregiudizi, abituato a essere libero sotto tutti i punti di vista. Se lo metta in testa!»

Don Reba aveva di nuovo ripreso il controllo di sé. Si passò un fazzoletto sul viso sudato e sorrise con compiacenza.

«Apprezzo la sua inflessibilità. In fondo anche lei si batte per una causa. E rispetto i suoi ideali, anche se non riesco a capirli. Sono molto felice di aver parlato con lei, sinceramente. Può darsi che un giorno mi farà conoscere più a fondo il suo punto di vista, e, chissà, potrebbe convincermi a cambiare il mio. Tutti gli uomini sono soggetti all’errore. Può anche darsi che sia io a sbagliare, che gli ideali per i quali vale la pena di lottare così strenuamente non siano i miei. Sono un uomo di larghe vedute, e non mi è difficile immaginare che un giorno lavoreremo insieme, fianco a fianco…»

«Questo è tutto da vedere!» disse Rumata, e uscì. «Che leccapiedi!» pensò.

«Sarebbe proprio un valido collaboratore! Fianco a fianco…» La città era in preda a un terrore indicibile. Il sole rosso sangue del mattino illuminava un tetro scenario fatto di strade deserte, rovine fumanti, persiane e porte sfondate. Nella polvere scintillavano cocci di vetro insanguinati. Sciami di folla calavano sulla città come verso un cimitero. Pattuglie formate da due o tre cavalieri vestiti di nero trottavano sui loro cavalli negli spazi aperti e agli incroci.

Ondeggiavano lentamente sulla sella. Dappertutto si vedevano pali conficcati alla meglio nel terreno, a cui erano legati corpi mutilati che ciondolavano sugli ultimi tizzoni dei roghi. Sembrava che in tutta la città non fosse rimasto niente di vivo, tranne i corvi disgustosi che gracchiavano e i boia affaccendati vestiti di nero.

Rumata attraversava la città. Teneva quasi sempre gli occhi chiusi, respirava a fatica e il corpo pieno di lividi gli doleva dappertutto. «Si possono ancora chiamare esseri umani? Alcuni sono stati massacrati per strada, mentre altri si nascondono nelle case, aspettando pazienti il loro turno. E tutti pensano: che importa cosa succede, finché non tocca a me… Io riuscirò a sfuggire. Bestialità a sangue freddo dei massacratori, obbedienza a sangue freddo dei massacrati. Atteggiamenti stupidi a sangue freddo, questa è la cosa peggiore. Dieci persone immobili, paralizzate dalla paura, aspettano pazientemente che venga qualcuno a scegliere una vittima a cui tagliare la gola a sangue freddo. L’anima di questa gente è sozza, e ogni ora di attesa paziente l’insozza ancora di più. Senza volerlo, queste case che si rannicchiano per la paura daranno vita ai peggiori criminali, informatori e assassini. Migliaia di persone che saranno schiave della paura e del terrore per tutta la vita, che ai figli insegneranno la paura e il terrore, i quali a loro volta li insegneranno ai loro figli… Non ce la faccio più. Sto impazzendo, diventerò come questa gente. Non ci vorrà molto perché dimentichi il motivo per cui sono qui… Devo trovare di nuovo un punto fermo, voltare le spalle per un po’ a tutto questo, trovare un po’ di pace e tranquillità…

‘«…Alla fine dell’anno della Grande Acqua, anno X della nuova era, i processi centrifughi guadagnarono rapidamente terreno nel vecchio impero. Avvantaggiandosi di questo, il Sacro Ordine, che rappresentava gli interessi dei gruppi più reazionari della società feudale e che cercava in tutti i modi di porre un freno alla decadenza generale…’ Ma hai mai sentito il puzzo dei cadaveri bruciati sul rogo? Sai com’è? Hai mai visto una donna nuda rotolarsi con il ventre squarciato nella polvere della strada?

Hai mai visto città dove gli esseri umani tacciono e si sentono solo i corvi?» Urtò con il petto in qualcosa di duro e appuntito. Alzò lo sguardo e vide davanti a sé un cavaliere nero. Una lunga lancia con la lama larga e finemente seghettata era premuta contro le sue costole. Il cavaliere lo guardava silenzioso da dietro le fessure del suo cappuccio nero, che rivelava solo una bocca dalle labbra sottili e un mento sfuggente. «Devo fare qualcosa» si disse Rumata. «Ma cosa? Disarcionarlo? No». Il cavaliere ritrasse lentamente il braccio destro, puntando la lancia. Il gesto fece venire in mente a Rumata che cosa doveva fare. Alzò casualmente la mano sinistra, tirando indietro la manica. Apparve un braccialetto di ferro. Gli era stato dato prima che lasciasse il palazzo. Il cavaliere esaminò il braccialetto, abbassò l’arma e si spostò per farlo passare. «In nome del Signore» disse con uno strano accento. «Benedetto sia il Suo nome» mormorò Rumata. Un po’ più in là c’era un altro cavaliere, occupato ad abbattere dall’orlo di un tetto una serie di figurine scolpite che rappresentavano dei demoni. Al secondo piano, un viso grasso e distorto dal terrore sbirciava dalle persiane semichiuse. Era probabilmente uno di quei bottegai che solo tre giorni prima avevano urlato entusiastici urrà per Don Reba, brindando con un boccale di birra e ascoltando con piacere il rumore degli scarponi chiodati dei soldati Grigi sul selciato.

«Oh, Grigi, Grigi…» Rumata distolse lo sguardo.

«Ma che starà succedendo a casa?» gli venne di colpo in mente, e cominciò ad affrettare il passo, mettendosi quasi a correre nell’ultimo tratto di strada. La casa era intatta. Due monaci erano seduti sotto il portico. Avevano tirato indietro i cappucci, esponendo al sole le loro teste mal rasate. Appena lo videro scattarono in piedi. «In nome del Signore» dissero all’unisono. «Benedetto sia il Suo nome» rispose Rumata, e chiese: «Che cosa ci fate qui?» Entrambi s’inchinarono e piegarono il braccio sullo stomaco. «Adesso che siete arrivato possiamo andare» disse uno dei due. Scesero i gradini e si allontanarono, nascondendo nelle lunghe maniche le braccia incrociate.

Rumata li seguì con lo sguardo, ricordando le migliaia di volte in cui aveva visto quelle umili figure camminare per strada nei loro lunghi abiti neri. Ma allora non trascinavano dietro di sé i foderi delle spade. «Su questo ci siamo sbagliati» pensò.

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