Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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La cerimonia proseguì immediatamente. Il viso di Cornelia si torse in una smorfia, che nessuno poté tuttavia percepire nella penombra del tempio. Dopo un breve silenzio carico di significati imperscrutabili, la sua voce si incrinò leggermente nel pronunciare il nome successivo: «Clelia».

E anche la seconda nuova vestale fu «catturata», sotto lo sguardo commosso del padre, a cui il Protomagister la sottraeva per sempre. Per almeno trent’anni sua figlia sarebbe stata totalmente dedita a Vesta e alla verginità.

Clelia e Gaia erano ormai indissolubilmente unite nella sorte come nell’amicizia.

Novaesium. Anno 830 dalla Fondazione di Roma.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Le procedure di affiancamento ai nuovi ufficiali superiori durarono quasi tutto l’inverno. Erano gli ultimi giorni di febbraio quando il legato e Giunio si accinsero a partire. Marzio aveva disposto che un contingente di trecento uomini li accompagnasse nel viaggio verso la capitale e aveva affidato al giovane tribuno il compito di comporre la coorte. I sette carri che trasportavano il tesoro conquistato ai germani potevano sicuramente costituire un validissimo motivo per spingere un gruppo di briganti ad attaccarli. La strada per Roma era lunga e pericolosa. Giunio andò a cercare a uno a uno i componenti del suo contingente scelto e concesse loro l’opportunità di far parte del corpo di spedizione. Nessuno di essi rifiutò l’onore. Rinunciavano alla maggiorazione di soldo destinata ai militari impegnati sul fronte, ma il miraggio del trionfo era tale da vincere ogni dubbio.

La legione fu schierata in ordine perfetto, appena fuori della cittadella. Gli scudi color sangue di bue formavano una linea interminabile. Le insegne dorate riflettevano in infiniti bagliori la luce del sole e il biancore dei campi ancora innevati. Giunio procedeva con cautela, controllando con attenta perizia il passo del cavallo: doveva non sopravanzare il generale, ma al tempo stesso mantenersi all’altezza del tribuno Sestilio, che procedeva al suo fianco. Al loro passaggio, centurioni e alfieri presentavano fieramente le armi. Raggiunto il centro dello schieramento, venne loro incontro il nuovo comandante con il corteggio degli alti ufficiali.

Con molti di essi Giunio aveva diviso le ansie della battaglia, il dolore delle ferite, le gioie della conquista. Al pensiero che stava abbandonando per sempre il furore dei combattimenti, l’odore della battaglia, provò una sensazione di vuoto. Il passo del suo cavallo rischiò per un istante di vacillare. Era giusta, la decisione che stava prendendo? Soltanto il tempo avrebbe potuto dirlo. Si erse fieramente in tutta la sua statura e proseguì oltre.

La cerimonia del passaggio delle consegne fu semplice. Quando fu conclusa, Marzio rivolse un’allocuzione agli uomini con cui aveva diviso il pane del guerriero. Un silenzio attento e carico di rispetto accompagnò le sue parole, pronunciate con voce sicura e stentorea in modo da farsi udire dal maggior numero possibile di militari, ma anche, forse, chissà, da dissimulare un’inevitabile punta di commozione.

«Uomini», disse, «eroi di Roma e della civiltà. L’imperatore mi chiama per tributarmi il più alto onore che possa essere riconosciuto a un soldato. Ho precisa coscienza del fatto che questa gratificazione non spetta a me solo ma a tutti voi: dal primo degli ufficiali al più umile degli inservienti delle stalle. La Germania è romana soltanto grazie a voi. I tribuni Giunio e Sestilio e i militari che mi accompagneranno in questo viaggio rappresentano l’intera legione, sono ognuno di voi. Lascio questa terra pacificata e le mie truppe al comando di un valoroso comandante e di molti ufficiali che già conoscete bene. Gli dei siano con voi, intrepidi romani.»

Malgrado la strenua disciplina della parata, un irresistibile mormorio si alzò dalla truppa per trasformarsi a poco a poco in un tonante boato: il nome di Marzio si levò alto verso le vette perennemente innevate delle Alpi. Tale fu il saluto dei soldati di Roma a un comandante stimato e amato.

Quando si affiancò al generale, appena intrapreso il cammino, Giunio si rese immediatamente conto dell’intensa commozione di quell’uomo saggio e giusto: era pari a quella da cui era pervaso lui stesso.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

«Così sei stata prescelta per servire la Sacra Dea!» Il tono di Cornelia non fece niente per dissimulare il disappunto.

Deferente come imponeva il suo ruolo, Clelia rispose con un disciplinato cenno di assenso, e la superiora continuò: «Certo, se non fosse dipeso dalla sorte ma dal mio giudizio, non so se saresti stata scelta: ho seri dubbi su di te. Sia comunque fatta la volontà degli dei». E il suo sguardo si fece cattivo e pericoloso, mentre continuava: «Attenta, Clelia, da questo momento ti osserverò in ogni istante. Nessun tuo errore, benché minimo, nessuna tua titubanza troverà la mia comprensione. Non hai alternative, prescelta tra le novizie: o diventerai una casta ed esemplare servitrice di Vesta o subirai le punizioni più inesorabili. Ho finito, puoi andare».

La bambina uscì dalla stanza. Nel cortile della dimora delle vestali, le due novizie godettero i raggi di un sole timido, assaporando uno dei rari e brevi momenti di svago.

Osservando il volto scuro dell’amica, Gaia si accorse subito del suo turbamento. Non appena fu messa al corrente del colloquio con la Vestale Massima, la esortò con calore: «Sta’ in guardia, Clelia, quella donna è potente quanto malvagia. E, chissà per quale misterioso motivo, è chiaro ormai da tempo che non ti ama. Forse perché sei tanto bella, Clelia, anche se una eletta non dovrebbe mai cedere a simili considerazioni. Ma, ahimè, nonostante la sacra funzione rimaniamo ugualmente esseri umani. E quella donna inacidita non può mai essere stata bella. Non come te, in ogni caso, gli dei mi perdonino. Per lei, condannarti al peggiore dei supplizi sarebbe una specie di gioco perverso. Guardati da lei!»

Alpi Rezie. Anno 830 dalla Fondazione di Roma.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Il cammino era impervio. Avevano superato passi innevati e sentieri pericolosi, aggirato cime invalicabili. Gli uomini sembravano tuttavia non sentire stanchezza; si dedicavano con ogni energia ai sette carri colmi del bottino conquistato ai germani, cercando di sopperire con i loro sforzi alle difficoltà del percorso. Dopo quasi dieci giorni dalla partenza da Novaesium, Giunio si accorse che il cammino si stava facendo via via meno aspro. Le foreste avevano ceduto prima alle prataglie e poi ai campi coltivati, i germogli di un verde luminoso brillavano al sole del mattino. Decisero di accamparsi in uno slargo protetto da imponenti speroni di roccia. Diradatesi tensione e fatica, l’occhio addestrato del tribuno stava però cominciando ad avvistare nei legionari qualche pericoloso segno di rilassamento. Si ingiunse di stare più che mai all’erta.

La tormenta di neve arrivò quasi inaspettata, anche se, per fortuna, quando le tende erano già state montate, perché in caso contrario la coorte avrebbe avuto serie difficoltà a erigere il campo. Il sole si oscurò di colpo, nubi basse e grigie cominciarono a scorrere veloci, spinte da un vento gelido e umido. I primi fiocchi caddero sparsi, infittendosi via via sempre più fino a diventare una muraglia invalicabile per gli sguardi. In breve il manto bianco coprì ogni cosa. L’esperienza insegnava che, data la stagione, la tormenta non poteva durare a lungo. Ben altra cosa sarebbe stata se la tempesta li avesse colti non ai piedi delle montagne ma ancora lungo i sentieri precipiti tra le rocce.

Lasciato un turno di dieci uomini di guardia, Giunio si ritirò nella sua tenda. Il vento fischiava rabbiosamente, impedendogli di riposare. Era inspiegabilmente teso e nervoso, ma imputava questo suo stato alla furia degli elementi. Non riusciva a chiudere occhio, si rivoltava pieno di agitazione sullo spartano giaciglio da campo che gli era stato allestito. Inutile rimanere lì. Tornò a indossare gli indumenti pesanti; per antica abitudine, più che per scelta, prese con sé un arco e alcune frecce e uscì nella tormenta. Sperava di imbattersi in qualche animale commestibile uscito dalla tana in cerca di nutrimento. Un po’ di carne fresca non avrebbe fatto male alla loro mensa.

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