Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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Roma odierna.

Riassumiamo, riassumiamo, pensò Sara Terracini, accesa in volto, tempestando con rinnovata energia sulla tastiera. Ma un po’ le dispiaceva. Era la storia della sua Città Eterna che si dipanava nei fogli marcescenti, quasi illeggibili, che Toni Marradesi continuava a recuperare con impegno certosino e lo scanner elettronico a leggere con ostinazione implacabile. Avanti, avanti. Stranamente, quel giorno, Oswald Breil non si era ancora fatto vivo. Dov’era finito?

Le sofisticate apparecchiature dello scanner continuavano con delicatissima e silenziosa precisione a leggere le pagine incartapecorite e a interpretarle. Avanti, avanti.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Clelia si svegliò di soprassalto, tirandosi a sedere di scatto sul letto. La sua mente era ancora scossa dall’incubo.

«Che cosa succede, Clelia?» le chiese, assonnata, la voce di Gaia dall’altro letto.

«Niente, ho solamente fatto un brutto sogno.»

Gaia ravvivò la lucerna e si sollevò sui gomiti: «Dev’essere stato un incubo terribile: urlavi di terrore».

«Ho sognato che ero stata condannata alla pena capitale e venivo condotta al Campo Scellerato da un drappello di guardie.»

«Non siamo ancora sacerdotesse e già temi la punizione estrema?» replicò l’altra. Quindi fece una pausa e continuò meditabonda: «È diverso tempo che ti vedo strana, Clelia, agitata, preoccupata. Che cosa ti turba? Vuoi che ne parliamo?»

«Ho paura, Gaia, ho paura di non riuscire a sopportare questa vita di clausura», rispose la giovane con spontanea sincerità.

«Non è facile per nessuno, amica mia, vivere in queste angustie, isolate, costrette alle ferree regole della Vestale Massima. Cerca di fartene una ragione: è il passaggio obbligato per diventare, domani, una delle sei sacre sacerdotesse.»

«È proprio questo, Gaia, che temo: non so se riuscirò mai a diventarlo. E non tanto per le probabilità del sorteggio, quanto piuttosto per i dubbi che mi sorgono dentro. Non so se riuscirò a sopportare quel genere di vita, l’intransigenza di quei princìpi.»

«I momenti di sconforto capitano a tutti…» provò a consolarla l’amica. Ma la convinzione era scarsa.

«Non si tratta soltanto di un momento», ribatté Clelia. «È diverso tempo, ormai, che mi interrogo su passato e presente, e che temo il futuro. Mi sembra che la nostra esistenza qui dentro sia da paragonare a quella di tanti infelici animali in gabbia. Mi ritrovo spesso a compiere i sacri uffici con gesti meccanici, senza nessuna convinzione.»

Novaesium. Anno 829 dalla Fondazione di Roma.

[76 d.C. (N.D.T.)]

Gli uomini del tribuno Giunio varcarono le mura del campo stabile alla testa della legione. Anche grazie al loro valore, la Germania era ormai da tre mesi, di fatto, una provincia dell’impero. I soldati agli ordini del legato Marzio erano riusciti dove tutti gli altri avevano fallito.

Giunio non avrebbe mai voluto rischiare l’accusa di peccare di superbia, ma nell’intimo aveva la certezza che i suoi suggerimenti avevano contribuito — mai si sarebbe azzardato a valutare in quale misura — a conferire allo schieramento e al morale degli uomini una parte dell’impeto ancora necessario per completare la conquista di Augusto.

Tutti gli occupanti della cittadella erano ad attenderli sulle mura, dai furieri alle meretrici cui spettava l’ambiguo ma prezioso compito di ritemprare lo spirito dei legionari. La festa sarebbe iniziata quella stessa sera, e chissà per quanto tempo sarebbe proseguita tra libagioni e canti.

Il messo imperiale li aspettava nei pressi del comando; li accolse con calorose parole di benvenuto. Marzio smontò da cavallo, scambiò alcune frasi di circostanza, quindi varcò la soglia della sua residenza, seguito dal messo.

Giunio raggiunse i suoi alloggi: dopo un anno trascorso sul campo, tra i sentieri infangati e i glaciali inverni del Nord, la muratura delle stanze riservate ai tribuni gli parve il concretizzarsi di un sogno.

Si spogliò della tenuta da viaggio, il tepore del riscaldamento ipocaustico sciolse le sue membra infreddolite. Comandò che gli venisse preparato un bagno caldo e assaporò finalmente i piaceri del meritato riposo. Dopo poche ore era già a rapporto dal suo generale. Ormai lo conosceva come conosceva se stesso: riconobbe immediatamente l’orgogliosa espressione del suo sguardo.

«Il messo imperiale è venuto a comunicare il mio trasferimento. Tra due mesi verrò sostituito da un altro legato.» Una notizia non certamente positiva per le sorti future di quel teatro di guerra. Giunio l’accolse in un silenzio più espressivo di molte parole. Aveva capito che il tono di Marzio riservava altre novità.

«Vengo richiamato a Roma, tribuno Giunio», riprese il legato, e le sue labbra si aprirono in un franco sorriso: «L’imperatore ha deciso di celebrare un trionfo in onore delle nostre imprese!»

Un trionfo, trasalì Giunio: il più alto riconoscimento dell’impero!

«Credo che questo», continuò il legato, «preluda alla fine della mia carriera militare e all’inizio di un impegno nuovo quanto affascinante.»

Lo smarrimento espresso dallo sguardo dell’interlocutore lo indusse a proseguire: «Volevo chiederti di seguirmi in questo mio viaggio, tribuno Giunio».

Lo smarrimento si convertì in tumultuosa confusione. «A Roma… Io… La richiesta mi riempie di onore, generale. Ma non posso esimermi dal chiedere a te e a me stesso: ne sono degno? Sarò in grado di esserti d’aiuto fuori del campo di battaglia? Sono un soldato, Marzio. Non so cosa saprei fare lontano dalle armi.»

«La tua sincerità ti fa onore, tribuno, ma il mio consiglio è di non sottovalutare le tue possibilità. In altre persone che ti conoscessero meno bene di me, inoltre, un simile atteggiamento potrebbe suscitare pericolosi equivoci. Sei giovane e valoroso, hai imparato a scrivere e a fare di conto, e l’acume dei tuoi suggerimenti ha contribuito alla nostra vittoria. Come hai saputo primeggiare sul terreno, così saprai distinguerti in ogni altro campo. Ne sono sicuro. La politica del più vasto impero mai conosciuto mi aspetta, e ti chiedo di affrontare al mio fianco questa nuova avventura.»

Marzio non dovette insistere ulteriormente: Giunio lo avrebbe seguito anche da solo contro un esercito di germani. E più che mai adesso, che gli chiedeva di diventare il suo uomo di fiducia. D’altra parte, come sapeva benissimo, ogni suo volere equivaleva a un ordine.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Il sorteggio tra le aspiranti avveniva con largo anticipo sulla data dell’investitura. Il fato sceglieva le nuove sacerdotesse a gruppi di cinque, e nell’ordine del sorteggio esse subentravano alle altre quando un posto si rendeva vacante. Il Consiglio Pontificio era schierato al gran completo nel tempio di Vesta. Il Protomagister si erse in tutta la sua statura e diede solennemente inizio al sorteggio. Rappresentava la più alta carica religiosa di Roma, ai suoi fianchi avevano preso posto le vestali. Molte di loro mostravano i segni inesorabili del tempo. La Vestale Massima era invece rigidamente eretta accanto al Palladio, il sacro simulacro di Minerva che la leggenda voleva portato nei lidi laziali da Enea.

Il nome che Cornelia scandì con voce grave e perentoria in apertura della cerimonia fu quello di Gaia. Il Protomagister pronunciò in ieratici toni bassi la formula rituale della «cattura». « Te, Amata, capio… » disse: «Così io ti prendo, o Amata, come sacerdotessa vestale per celebrare i riti che una sacerdotessa vestale è giusto che celebri nell’interesse del popolo romano e dei Quiriti, essendo compiutamente idonea per la legge». E, afferrata la giovane per il braccio come una prigioniera di guerra, la condusse nell’angolo ritualmente preposto.

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