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James Herbert: La pietra della Luna

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James Herbert La pietra della Luna

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John Child è riuscito a sfuggire al terrore del suo passato. Sì è rifatto una nuova vita, ha riscoperto l’amore. Gli manca disperatamente sua figlia ma di certo non sente la mancanza dell’atroce incubo che si è lasciato alle spalle. Poi, all’improvviso, tutto ricomincia. Orribili visioni gli invadono la mente. Una cosa, una creatura incredibilmente forte ha invaso la sua coscienza e lo rende testimone, attraverso i suoi oechi, di assassinii brutali, di mutilazioni orrende. Senza dubbio John ha un grande potere psichico, ma anche la cosa lo ha. E la cosa lo ha fiutato, è sulle sue tracce sempre più famelica...

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James Herbert

La pietra della Luna

Il Passato

Il ragazzo aveva smesso di piangere.

Giaceva sul suo letto stretto, gli occhi chiusi, il volto come una maschera di alabastro nella luce della luna. Ogni tanto un tremore scuoteva tutto il suo corpo.

Si strinse nelle lenzuola, tirandole su, fin sotto il mento. Una pesantezza terribile gli prendeva il corpo, come se nelle vene fluisse piombo liquido; il peso era la sensazione di una perdita, e lo aveva lasciato debole ed esausto.

Il ragazzo giaceva li da molte ore, quante non lo sapeva proprio. Gli ultimi tre giorni erano stati un’eternità senza tempo; ma suo padre gli aveva proibito di muoversi dal letto. E quindi lui giaceva, sopportando la perdita, spaventato dalla nuova solitudine.

Fin quando qualcosa lo costrinse ad aprire di nuovo gli occhi cerchiati di rosso.

La figura era in piedi, gli sorrideva dal fondo del letto. Egli ne sentiva il calore, breve requie dallo strazio. Ma non era possibile. Suo padre gli aveva detto che non era possibile.

«Non puoi… non puoi essere…» disse, la flebile voce appena un tremolio contro la notte. «Lui… dice che… non puoi… essere…».

Il senso della perdita lo invase di nuovo, poiché ora era anche dentro di lei.

D’un tratto il ragazzo sbigottito guardò altrove, in alto, in un angolo della stanza, come se improvvisamente si fosse reso conto di un’altra presenza, di un altro sguardo posato su di lui, invisibile. L’attimo svanì con i passi nel corridoio, ed egli distolse lo sguardo, una paura vera negli occhi. La donna era scomparsa.

Sulla porta, l’ombra fluttuante di un uomo.

«Te l’avevo detto» disse, e alla rabbia e durezza delle parole sembrava mischiarsi la colpevolezza. «Mai più! Mai più…» . Aveva il pugno sollevato mentre arrancava verso il ragazzo rannicchiato sotto le coperte.

Fuori, la luna piena era nitida e pura contro il nero della notte.

* * *

Finalmente era morta.

Dove c’era stato il terrore, restava solamente il vuoto.

Occhi morti. Come di un pesce su una lastra di ghiaccio.

Il corpo dormiente, l’ultimo spasimo esaurito, l’ultimo lamento soffocato. L’ultima sua espressione dissolta.

Le dita artigliate erano ancora tese verso la forma sopra di lei, uno dei pollici infilato nella bocca come per strapparle il sorriso.

La forma si alzò, mollando la presa sul collo; il respiro era appena affaticato, nonostante la donna che aveva sotto si fosse dibattuta a lungo.

Si sfilò il pollice dalle labbra beffarde e la mano del cadavere cadde, uno schiaffo sulla carne nuda.

Soppesò la vittima, un sorriso sempre fisso sul volto.

Prese le mani senza vita, stringendone i polsi, tirandole in alto. Si sfregò le unghie rotte lungo il viso, posò le dita irrigidite attorno al proprio collo come per canzonarle, in una parodia ai vendetta. Un sogghigno rauco a deriderne l’inerzia.

A cavalcioni del cadavere, lasciò scivolare le mani sul corpo nudo, muovendole perché toccassero dappertutto, carezzassero ogni parte. Le mortali, morbide carezze suscitavano altre sensazioni.

La forma si diede da fare mentre il corpo della donna si raffreddava lentamente.

Dopo poco si alzò dal letto, un leggero sudore ne ricopriva la pelle. Lungi dall’essere sazia.

Un gelido piovasco batteva contro i vetri con improvvise folate, quasi una protesta contro la crudeltà esercitata all’interno. Le tende sbiadite tirate contro la luce ne soffocavano il rumore.

Aprì di scatto la borsa in un angolo della squallida stanza, ne estrasse un involto nero che svolse sul letto, accanto al cadavere. Nella debole luce lampeggiò l’acciaio degli strumenti. Li alzò uno ad uno e dopo averli esaminati tenendoli vicini agli occhi che baluginavano, scelse il primo.

Il corpo fu squartato dallo sterno al pube, quindi da fianco a fianco. Il sangue colò velocemente dalla profonda incisione a croce.

I lembi della carne furono prima separati poi ripiegati. Le dita già rosse vi si immersero.

Rimosse gli organi, tagliando dove era necessario, e li ripose sulle coperte dove rilucevano fumando.

Per ultimo il cuore, strappato via, gettato sul mucchio da dove scivolando sul viscido cumulo si spiaccicò a terra. Un afrore acre riempiva la stanza.

Fatto un vuoto, lo si riempie facilmente.

La forma cercò in giro per la stanza ogni sorta di piccoli oggetti. Finalmente soddisfatta, tirò fuori ago e filo dall’involto sul letto.

Iniziò a cucire assieme i lembi, bucando le carni con punti grossolani, sorridendo sempre. Il sorriso diventò un ghigno ripensando all’ultimo oggetto riposto nel cadavere.

* * *

Pinnava con lenti movimenti sopra le rocce verdastre, rilassato, muovendo le mani di tanto in tanto, per cambiare direzione, attento alle escrescenze aguzze che tagliavano facilmente la pelle resa morbida dall’acqua. Fletteva lentamente le gambe, partendo dalle anche con colpi lunghi e aggraziati, le pinne semirigide lo spingevano agevolmente attraverso i flutti.

Le alghe creavano effetti ondulanti e i pesci viravano stretti, sorpresi dalla sua improvvisa intrusione, le anemoni silenziosamente sembravano fargli cenno. La luce del giorno filtrava, i raggi sparsi nel santuario segreto e muto del fondo. Childes sentiva solamente il suono sordo e pesante dei propri gesti.

Una breve onda, un movimento nella sabbia, ne attirò lo sguardo e lui si avvicinò cauto, poggiò delicatamente la mano su una balza di roccia, e si fermò oscillando.

Sotto di lui una stella di mare si era attaccata a una vongola e mentre la teneva immobile ne schiudeva le valve con i peduncoli a tubicino. La stella lavorò pazientemente, i cinque tentacoli impiegati uno alla volta, in modo da stancare la preda, allargando con risolutezza l’apertura fino a scoprire i tessuti molli della vongola. Childes guardo con un misto di fascino e di leggera repulsione mentre il cacciatore estrudeva il proprio stomaco per affondarlo nella sostanza carnosa da succhiare.

Un lieve spostamento tra le guglie e le caverne delle rocce vicine, distolse l’attenzione del nuotatore. Perplesso, studiò gli anfratti per qualche momento prima che un ulteriore movimento attirasse il suo sguardo. Il paguro sgattaiolò attraverso la roccia, la conchiglia e le chele ricoperte di alghe verdi, un camuffamento naturale ed efficace sia in acque basse che profonde, nonostante fosse comunque quasi invisibile.

Childes seguì i passi del granchietto, ammirandone l’agilità e la velocità; il piccolo essere era reso ingrandito dalla lente del vetro della maschera e dall’acqua di mare stessa. Il granchietto si fermò d’un tratto come se si fosse accorto di essere osservato e allungò una chela alla ricerca di un’altra rincorsa.

Il sorriso del nuotatore alla vista di quel panico improvviso e fremente era deformato dal boccaglio infilato tra denti e gengive; quando si rese conto di non avere quasi più aria nei polmoni, senza fretta si apprestò a risalire alla superficie.

La visione arrivò senza preavviso, come le altre tanto tempo prima.

Quasi non sapeva cosa vedeva, poiché era nella sua mente non nei suoi occhi; un miscuglio di colori, odori. Le mani gli prudevano nell’acqua. C’era qualcosa di lungo, viscido, attoreigliato, rosso e fradicio. Del metallo, acciaio acuminato contro qualcosa di molle e tenero. Nuotava nel sangue. Stava nuotando nel sangue. Fu preso dalla nausea e risucchiò acqua salata.

Il corpo gli si incurvò per il dolore e la bile mescolata all’acqua salata che eli correva nella gola, esplose nel tubo del respiratore riempiendolo.

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