Il muro bianco limitava la visibilità a pochi passi. I fiocchi di neve turbinavano quasi orizzontali prima di posarsi a terra.
La stessa abitudine antica gli fece volgere lo sguardo intorno a sé in cerca delle sentinelle. Nel riverbero della tormenta non riuscì a vedere nessuno, finché una voce possente non gli intimò di fermarsi. Poco distante vide la prima. Appena lo riconobbe, il legionario abbandonò ogni tono aggressivo e ne assunse uno quasi sottomesso: «Scusami, tribuno Giunio», disse. «Non ti avevo riconosciuto».
«Fai buona guardia, Vito», rispose: aveva combattuto fianco a fianco con ognuno di loro, li conosceva tutti per nome. «Meglio stare all’erta, anche se credo che l’unica minaccia possa provenire da un qualche orso affamato!»
Quindi lo salutò, dopo avere scambiato con lui alcune brevi battute sulle prede che avrebbe potuto catturare. Si avviò lungo il tracciato battuto dai passi del legionario. Calcolò mentalmente la distanza che avrebbe dovuto intercorrere tra un posto di guardia e l’altro. La neve arrivava già ai polpacci, il solco scavato dai passi regolari della sentinella gli consentiva se non altro di non sprofondare. Pensò di avere ormai raggiunto l’area di sorveglianza di un’altra guardia. Improvvisamente le orme si fecero più numerose e sparse. Le macchie di sangue risaltavano sul candore della neve. Il corpo della guardia era poco lontano; chi lo aveva ucciso aveva cercato di nascondere il corpo in un cespuglio.
Si avvicinò con grande cautela, all’erta, tendendosi in tutte le sue facoltà. Il sangue sgorgava ancora dalla gola recisa, circondato da un alone di condensa. Gli occhi erano vitrei nell’immobilità della morte. L’assassino non doveva essere lontano. Istintiva la sua mano destra si portò sopra la spalla e le dita estrassero una freccia dalla faretra. Contemporaneamente la sinistra sollevò l’agile arco siriaco. La punta del dardo guidava il suo sguardo. Girò il busto in direzione della foresta. Li vide subito: si muovevano con l’agilità dei cervi. Alcuni, per meglio dissimularsi nell’ambiente innevato, portavano una pelle candida sulla schiena. Spuntavano da dietro gli alberi, facevano pochi passi e di nuovo scomparivano dietro un altro nascondiglio. Si voltò verso l’accampamento o, meglio, verso il luogo dove riteneva fosse il campo, al di là di quella bianca cortina impenetrabile. Era troppo lontano per lanciare l’allarme. Tornò sui suoi passi. Non ebbe quasi tempo di accorgersi che anche Vito giaceva a terra esanime.
Avvistate le prime tende, urlò con quanto fiato aveva in gola: «All’armi, romani, all’armi! Siamo attaccati! All’armi!»
Gli uomini uscirono precipitosamente dai loro ripari, la maggior parte già con la spada in pugno; pochi istanti più tardi i misteriosi assalitori erano loro addosso. Se fossero riusciti a cogliere di sorpresa l’accampamento, quasi sicuramente avrebbero avuto ragione dei romani. Erano almeno ottanta, ma, contrariamente alle loro previsioni, non si trovarono di fronte un gregge di militari storditi dal sonno ma un corpo scattante di legionari in armi pronti a respingere lo scontro. Spentosi l’impeto del primo assalto, i romani furono finalmente in grado di organizzare al meglio le forze e di far valere la schiacciante superiorità numerica. Gli aggressori si dimostrarono ottimi combattenti, ma poco avrebbero potuto in uno scontro così impari. Batterono in ritirata di lì a poco, dopo aver lasciato almeno venti uomini sul terreno.
Perplesso, pur nella concitazione dell’inseguimento, a Giunio parve quasi che alcuni rallentassero la fuga per dare il colpo di grazia ai compagni feriti. Li inseguirono per un breve tratto, ma poi preferirono tornare nei pressi dei carri del bottino: la lunga esperienza insegnava che poteva essere soltanto un diversivo per allontanarli dal campo. Trentasei legionari erano rimasti uccisi e dodici feriti.
Giunio si avvicinò al corpo di uno degli assalitori: aveva un grosso squarcio al petto e il collo seccamente reciso nella parte posteriore. Colpi chiaramente inferti in momenti diversi. Rimase qualche istante immobile, chino sul cadavere, immerso in profonde riflessioni. Quello che gli era parso di intuire corrispondeva a verità: i briganti non volevano lasciarsi dietro testimoni. Perché? L’uomo impugnava ancora la spada, forzò le sue dita per liberarla. Poco sotto l’elsa vide perfettamente inciso il marchio delle fucine imperiali. Lo conosceva fin troppo bene: ogni arma in dotazione ai legionari portava lo stesso marchio.
«Quanti uomini abbiamo perso?» chiese Marzio, ricevendo una risposta puntuale e immediata. Annuì in tono preoccupato. «Tanti», commentò a mezza voce. «Ma sarebbe andata molto peggio», considerò, «se una delle sentinelle non fosse riuscita a dare l’allarme. Giunio, voglio conoscere il valoroso che ha salvato la vita a tutti noi e il prezioso carico che portiamo a Roma.»
In realtà era stata soltanto una serie di circostanze a far sì che Giunio avvistasse gli assalitori. La sua sincerità innata gli impose di spiegarlo al suo signore, informandolo concitatamente che a dare l’allarme era stata la sua voce.
Marzio annuì una seconda volta, con espressione meditabonda. «Strano e fortunato destino, il mio, Giunio. Ti sono tre volte debitore della vita», disse, rivolgendogli un gesto di paterno affetto.
Sestilio si era mantenuto in disparte. Giunio non ricordava di averlo visto durante la battaglia. Fu costretto a riflettere che il suo pari grado non sembrava davvero animato dalla propensione al combattimento che contraddistingueva lui come ogni altro soldato inviato dall’impero in quelle remote regioni di confine: nelle rare occasioni in cui doveva arrivare allo scontro, il nobile tribuno si faceva circondare da un manipolo di guardie scelte, con la dichiarata scusa di guidarle all’assalto, ma in realtà in modo da esserne protetto.
Strano soldato davvero. Gli tornarono rapidamente alla memoria le spontanee e amare considerazioni di Marzio sui motivi di puro vantaggio personale per cui certi rampolli della nobiltà romana chiedevano di essere mandati per qualche tempo al fronte. La carriera politica. Sestilio sembrava già perfettamente versato in quelle arti sottili e subdole. Sarebbero mai riusciti a impararle due uomini addestrati soltanto alla guerra, come lui e Marzio? Ma non era tempo di riflessioni. Bisognava agire, rimanendo il più possibile all’erta.
«Rinforzate i turni di guardia», ordinò agli uomini, cercando di sovrastare il rombo della tormenta. «Le sentinelle si dispongano in modo da vedersi l’una con l’altra. I legionari in tenda tengano le armi a portata di mano.» Quindi si rivolse nuovamente a Marzio: «Perdonami, comandante. Debbo parlarti».
Pochi istanti più tardi entrava nella sua tenda. La presenza di Sestilio, che da quando lo aveva visto non si era più allontanato da lui, aveva ormai il potere di metterlo profondamente a disagio. Chiedeva protezione anche a lui? Chissà. In certi momenti gli sembrava addirittura che lo controllasse. Cercò di scacciare il pensiero. Sestilio era un ufficiale dell’impero romano come lui, inviato in quelle terre direttamente dall’imperatore.
Si scrollò di dosso la neve e batté i piedi sul suolo; al centro della tenda ardeva un braciere, la temperatura era accettabile, quasi confortevole. Con poche battute mise al corrente il legato delle modalità dell’assalto, soffermandosi sugli aspetti oscuri dell’imboscata. «I nostri assalitori», concluse, «si muovevano in maniera esperta e combattevano ordinatamente. Hanno preferito uccidere i loro compagni piuttosto che lasciare testimoni in mano nostra. Inoltre, particolare davvero inquietante, alcune delle loro armi provenivano dalle officine imperiali.»
Marzio rimase pensieroso qualche istante, ma poi sembrò voler scacciare la tensione, rimandando ogni decisione. «L’importante è che siamo riusciti a limitare le perdite e che il tesoro dei germani non ci sia stato trafugato», disse. «Auguriamoci che i briganti non stiano raccogliendo le forze per un nuovo attacco.»
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