Marco Buticchi
La nave d’oro
Per Vincenzo
Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo.
Se non posso piegare gli Dei Superni, farò presa su quelli dell’Acheronte.
VIRGILIO
Roma, gennaio 2002
«Quando, per la prima volta, incontrai lo sguardo di Lucio Domizio Enobarbo, questi era poco più che un bambino. Già allora, nei suoi occhi, c’era una luce che esprimeva potere e coraggio. Quello stesso potere e quello stesso coraggio necessari a chi voglia governare l’impero più grande di ogni tempo.»
Sara Terracini distese le gambe sotto il tavolino. Aveva le mani sudate. Allungò le dita sulla tastiera del computer e rimase a pensare. Si accarezzò í capelli e abbassò le palpebre un istante, quasi volesse trovare la concentrazione. Poi le sollevò. Osservò i caratteri greci che riempivano lo schermo dinanzi ai suoi occhi, scuri come la notte.
Ancora una volta si era imbattuta in una storia emersa dal passato, eppure viva, avvincente, affascinante. Ancora una volta avrebbe dovuto far luce su vicende lontane e misteriose.
Roma, quella Roma così diversa dalla città descritta nei documenti che aveva appena terminato di esaminare, proseguiva la sua vita, ordinaria e disordinata, al di là delle finestre del laboratorio di ricerca.
Il lavoro di decodifica e riproduzione computerizzata dei papiri aveva richiesto poco più di un mese. Adesso a Sara toccava il compito di tirare le somme, avvalendosi delle sue cognizioni storiche: in fondo, era una fra le maggiori esperte di storia antica. Non sarebbe stato difficile mettere in ordine cronologico quegli avvenimenti tanto ravvicinati tra loro nel tempo.
D’un tratto, il viso di Oswald Breil si presentò alla sua mente. Quante volte il piccolo uomo le aveva raccomandato di «non fantasticare, attenersi ai fatti, non alimentare la fantasia, perché questo impedisce di capire». Un sorriso malizioso si aprì sul suo volto, simile a quello di un bambino che fa una marachella ben sapendo di farla.
«Fantasticare, dice lui», pensò. «Come se fosse facile tradurre quello che un ingegnere di origine ellenica ha scritto quasi duemila anni fa. Ti darò comunque retta, mio vecchio amico Oswald, ma questa storia vorrei rielaborarla alla mia maniera… Tanto più che in tutto questo, caro il mio spione, tu non c’entri quasi per niente e al momento sei in ben altre faccende affaccendato.»
La giovane si concesse ancora qualche istante di pausa: distese le lunghe gambe e socchiuse ancora una volta gli occhi. Già… come si dice, in tutt’altre faccende affaccendata…
«Forza, dottoressa Terracini…» si disse di lì a poco riscuotendosi dallo stato di torpore, «devi assolutamente portare a termine il lavoro entro questa settimana.»
Sara sapeva bene che cosa questo significasse: sette giorni a sgobbare dalla mattina alla sera, senza poter tornare a casa neanche per una doccia. Il laboratorio era fornito di una foresteria e lei non riusciva nemmeno a ricordare quante notti avesse dormito poco e male all’interno dell’edificio in cui lavorava.
Quando i suoi collaboratori l’avevano vista arrivare con la borsa da viaggio, avevano capito che «il capo» aveva cose importanti da portare a termine; allora si erano tutti stretti attorno a lei, mostrando l’efficienza che aveva reso celebre quel centro di ricerca nel mondo.
«Una settimana…» mormorò nuovamente tra sé. «Cominciamo a dare corpo alle memorie di Lisicrate.»
Mar Mediterraneo, 1326
La nave del Muqatil navigava sicura. Aveva le fiancate molto basse e una linea snella, filante. Era stato lui stesso a volerla così, capace di sfuggire a ogni inseguimento delle galee cristiane. I remi di cui era dotata si immergevano con puntuale sincronia, quasi a indicare la perfetta intesa tra i membri dell’equipaggio. Erano tutti guerrieri indomiti e senza paura. Pronti a dare la vita per salvare quella del loro condottiero.
Gli occhi color cobalto del Muqatil scrutavano il mare lievemente increspato alla ricerca di altri naufraghi: lo scontro con la flotta cristiana era stato violento e le navi saracene avevano avuto la meglio. Ma nessuno degli uomini in difficoltà doveva essere abbandonato tra i flutti, nemmeno se si trattava di un infedele. Questo era stato, come sempre, l’ordine che il Muqatil aveva impartito ai suoi. Era stato sfidando onde alte come montagne che, anni prima, un nobile cavaliere cristiano aveva salvato sua madre, poco più che bambina. E quella bambina era cresciuta nel mondo dei cristiani, aveva amato e sposato un Cavaliere del Tempio, sino a quando l’odio serpeggiante tra gli infedeli — perché altro non erano per il Muqatil — non l’aveva assassinata.
L’antica bandiera da guerra dell’Ordine Templare, un teschio bianco in campo nero che sovrastava due tibie incrociate, sventolava sulla poppa, residua testimonianza delle origini di quel giovane vestito con abiti arabi. Nessuno lo chiamava più con il suo vero nome: Lorenzo di Valnure. Per le sue genti rappresentava il cardine nella lotta contro gli infedeli, era il faro luminoso per ogni oppresso del suo popolo. Per tutti era il Muqatil, il guerriero. E la sua fama navigava sicura e invincibile così come la sua galea fendeva le acque. Malgrado avesse meno di vent’anni.
Roma, gennaio 2002
«L’odore della pece è forte e intenso, i maestri d’ascia lavorano alacremente, modellando forme inaudite nei tronchi di legno stagionato. Sin da bambino quella è stata la mia vita: osservare e capire quanto la mente umana sia capace di inventare e quanto poi l’uomo riesca a realizzare ciò che ha progettato. Ho sempre amato tale genere di sfida, mi sono sempre impegnato affinché ogni mio sogno prendesse forma e sostanza. Mio unico signore è stato colui che, a tredici anni, diventando figlio adottivo di Claudio, ha abbandonato il nome di Lucio Domizio Enobarbo per assumere quello di Nerone Claudio Druso Germanico.
«Il mio nome è, invece, Lisicrate. Nasco da un bravo calafato che, con le sue fatiche e la sua esperienza, è diventato proprietario di uno dei più rinomati cantieri navali del Pireo. Non so che cosa mi spinga a testimoniare per iscritto e in maniera ordinata le mie esperienze: forse i miei figli, quando e se riuscirò a metterli al mondo. Forse i posteri. Forse per fissare nella memoria accadimenti di certo poco comuni. Mi auguro comunque che qualcuno legga questi miei papiri, traendone insegnamento. La medesima lezione che io ho cercato di impartire a Lucio Domizio, un bambino che aveva poco più di undici anni quando lo conobbi, con i capelli color del bronzo brunito e un’intelligenza fuori del comune. Chiunque si imbatterà in queste mie memorie sappia che corrispondono a verità e non sono per nulla influenzate dalla figura che ho avuto l’onore — e talvolta l’onere — di servire per lunghi anni.»
Sara Terracini scosse la testa e si fermò un istante a pensare. Niente doveva avere il sopravvento sulla sua razionalità: l’emozione che quelle pagine sapevano accendere nel suo animo di ricercatrice doveva essere lasciata in disparte. Fuori, le prime ombre di una sera invernale si stavano allungando sulla città eterna.
«Avanti, ricominciamo», disse Sara a se stessa, «passiamo alla terza persona e cerchiamo di calarci nella vita dell’Urbe ai tempi di Nerone. Sarà un buon modo per superare qualche coinvolgimento di troppo con questo antico diario. Devo dare priorità all’ordine cronologico dei papiri e tirar fuori un vero e proprio romanzo. Sono convinta che ne uscirà una bella storia.»
Sara sorrise, mentre un volto le tornava ancora una volta alla mente. Da qualche giorno il nome di Oswald Breil si trovava su tutte le prime pagine dei giornali.
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