Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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«Il motivo della tua convocazione, Hito», disse il generale Ashikaga al samurai, «è della massima importanza. Ho chiesto allo shogun Hojo, tra le altre cose, che ti venga conferito un prestigioso incarico e gli ho quindi suggerito che le tue doti e capacità ti farebbero ben figurare come daimyo della prefettura di Shimane.»

La carica feudale di governatore, il daimyo appunto, era la massima aspirazione di ogni samurai. Malgrado ciò, Hito si limitò a rispondere: «Vi sono grato per questo enorme privilegio, generale Ashikaga».

«Considera, inoltre», continuò Takauji Ashikaga, «che sotto quella giurisdizione ricadono anche le isole Old, il luogo nel quale è stato esiliato l’imperatore Go-Daigo. Io non credo che, con l’esilio, il potere che l’imperatore aveva ricostruito attorno a sé sia andato del tutto perduto. Anzi, sono convinto che lo shogun abbia creato un pericoloso martire, pronto a colpire con la rapidità e la forza di un serpente. A te spetterà il compito di riferirmi ogni mossa di Go-Daigo. Si profilano nuovi e preoccupanti scenari all’orizzonte. Nel contempo, la tua carica di daimyo ti consentirà di agire come meglio credi per accumulare ricchezze e potere utili alla nostra causa…» Lo sguardo che Ashikaga rivolse a Hito, mentre sottolineava l’espressione «come meglio credi», era eloquente.

Hito Humarawa assunse il suo ruolo di daimyo pochi mesi più tardi, e subito incominciò a circolare la leggenda dell’inflessibile e feroce samurai che aveva fatto parte della guardia personale del Grande Generale. Una leggenda che ben presto la popolazione avrebbe constatato quanto corrispondesse a realtà, specialmente nei suoi risvolti negativi.

Nell’arco dei due anni che seguirono, Humarawa inasprì la pressione fiscale nei confronti dei ceti meno abbienti e mise in piedi una flotta di wako: veri e propri pirati che agivano ai soli ordini e nell’interesse esclusivo del daimyo. Alcuni dicevano che spesso fosse lo stesso Hito ad assumere in prima persona il comando nelle scorrerie compiute ai danni delle navi mercantili. Ma pochi, quasi inesistenti, erano i testimoni che i feroci wako lasciavano sopravvivere dopo ogni azione piratesca.

Tabarqa, 1331

Non era certo facile governare una città. Il Muqatil lo sapeva bene, e per questo motivo continuava ad avvalersi dell’esperienza di coloro che avevano collaborato con suo nonno Ibn ben Mostoufi.

Da quando il vecchio emiro era morto, il Muqatil aveva abbandonato le operazioni in mare, dedicandosi solo all’amministrazione delle sue terre e della sua gente. E in un breve lasso di tempo si era guadagnato il medesimo rispetto che gli veniva tributato come guerriero.

L’uomo che entrò dalla porta principale della città era stanco e visibilmente scosso. Vestiva la divisa dei soldati dell’emiro. Montava un cavallo di piccola pezzatura. Il manto dell’animale era madido di sudore e dei soffi rumorosi uscivano dalle narici dilatate.

«Presto, preparatevi all’assedio: gli infedeli sono sbarcati a poche miglia da qui. Stanno per organizzare le file e mettersi in marcia», disse il cavaliere al comandante del corpo di guardia non appena varcò le mura di Tabarqa.

La notizia percorse in breve l’intera città, come un fremito di terrore si irradia nel corpo di un uomo dinanzi al pericolo.

Il giovane emiro fu tra i primi a essere informato e subito si mise al comando di una pattuglia che aveva lo scopo di osservare il nemico e di valutarne la forza.

Il gruppo, non appena giunse in prossimità del luogo dello sbarco, abbandonò le cavalcature e prese ad avanzare a piedi, trovando riparo tra le rocce che digradavano verso la spiaggia di sabbia bianca.

I vessilli sventolavano al di sopra dei cavalieri. Dovevano essere poco meno di cinquemila uomini: una forza sufficiente per assediare Tabarqa e metterne a dura prova le difese. Sarebbe stata questione di tempo, ma la città era destinata a capitolare, schiacciata dalla forza degli assalitori.

Il Muqatil osservò con attenzione le bandiere variopinte che si tendevano al vento e trasalì: tra di esse riconobbe un vessillo moresco. Incredulo, aguzzò ancor più la vista, fino a che, tra la moltitudine di cavalieri, non gli parve di riconoscerlo: ’Abd al-Hisàm, il suo perfido cugino, vestito con armatura ed elmo da guerra, guidava un contingente di traditori e marciava al fianco degli infedeli contro la sua stessa gente.

Oceano Atlantico, 1998

Il radar ad alta definizione del catamarano aveva segnalato l’arrivo di una perturbazione di notevole entità nel corso della notte.

Vittard impartì i comandi, poi si ritirò nella sua cuccetta. Alcune ore di sonno gli sarebbero state necessarie per meglio affrontare il turno di notte.

Il mare cominciò a montare poco prima che Henry riprendesse il timone. Il vento, proveniente da poppa, si attestò sui quarantacinque nodi. Il C’est Dommage volava sull’acqua scura a una velocità impensabile anche per un motoscafo d’altura. Una luna piena e incandescente illuminava la notte ogni volta che riusciva a far capolino tra le nuvole, gettando una luce fredda sul mare in tempesta.

Sylvie sedette accanto al timone, osservando il suo uomo da sotto gli occhiali protettivi. Lo sguardo della donna esprimeva un amore intenso e una profonda ammirazione.

«Con questo mare bisogna tenere sotto controllo costante lo schermo radar. È possibile che le onde coprano il segnale dei ‘figli’».»

Vittard chiamava «figli degli iceberg» le masse di ghiaccio che le temperature più miti stavano sciogliendo e che affioravano appena nel mare in tempesta: una collisione con una di quelle invisibili insidie avrebbe prodotto un naufragio con conseguenze catastrofiche. Lo skipper sorrise, pensando a che cosa avesse in serbo la vita per ognuno: lui si era laureato a Parigi conseguendo la specializzazione in archeologia subacquea, anche se non aveva mai esercitato la professione. Gli allenamenti e le regate ne avevano assorbito quasi completamente le energie sin da quando, ancora bambino, aveva cominciato a praticare l’attività agonistica con ottimi risultati.

«Vuoi che ti prepari un caffè, mio capitano?» chiese la donna, mentre le due prore si infilavano in un’onda di grandi dimensioni.

«Sì, grazie, Sylvie. Prima però potresti liberarmi la scotta di sopravento del fiocco?» rispose Henry, parlandole nell’orecchio per superare il fragore della tempesta.

Sylvie si avviò con passo agile sopra la rete elastica che era posta tra i due galleggianti e incominciò ad armeggiare attorno al winch per liberare la scotta incocciata.

Una raffica giunse improvvisa da una direzione diversa rispetto a quella da cui soffiava il vento.

Il boma cambiò bordo con violenza, fendendo l’aria sopra la testa dello skipper. Il catamarano ricevette la spinta da una nuova direzione, compiendo quella che in gergo si chiama strambata involontaria. Una massa d’acqua invase la coperta. Henry governò l’imbarcazione con esperienza ma, non appena ebbe riguadagnato il controllo, sotto le luci poste sulle crocette dell’albero, si rese conto che Sylvie non c’era più.

Vittard non aveva tempo per pensare e, se avesse urlato per chiamare aiuto, nessuno lo avrebbe potuto sentire: inserì il pilota a vento, afferrò un salvagente e si tuffò nel mare in tempesta.

La tuta stagna che portava, sebbene lo limitasse nei movimenti, gli garantiva una sopravvivenza di circa due ore nell’acqua gelida. Henry prese a nuotare controvento verso il punto in cui l’onda aveva strappato Sylvie dal ponte.

Aveva visto un bagliore: uno dei sempre più rari raggi di luna aveva colpito una delle strisce catarifrangenti poste sulla tuta termica della donna. Quando Vittard la raggiunse era stremato, ma le condizioni di Sylvie erano talmente gravi da non fargli sentire la stanchezza.

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