Henry si trovò di fronte a un signore distinto, avanti negli anni, forse vicino ai sessantacinque. Aveva i capelli bianchi e occhi penetranti che non tradivano alcuna timidezza. Le labbra, ombreggiate da un paio di baffi candidi, erano atteggiate a un bonario sorriso.
Henry annuì. Provò una simpatia istintiva nei confronti di quell’anziano sconosciuto, anche se temeva fosse uno dei tanti curiosi interessati alle tristi vicende di uno tra i più blasonati lupi di mare di ogni tempo.
«Ho fatto molta strada per trovarla, Henry», disse ancora quel signore dai baffi candidi, superando con discreta agilità gli scogli che li separavano. «Mi chiamo Guglielmo Grandi, sono un ammiraglio in pensione della marina militare italiana», si presentò, porgendogli la destra. Era una stretta di mano forte, sincera, amica.
«In che cosa posso esserle utile, ammiraglio?» rispose Henry, con tono schivo, quasi volesse cautelarsi da richieste indesiderate.
«In molte cose. Prima fra tutte: sono convinto che lei sia in grado di fare luce su un episodio che mi ha segnato la vita. Se ha tempo e voglia di parlare con me per qualche minuto…» spiegò l’ammiraglio, indicando un bistrot a poca distanza dal molo.
Giappone, 1330
Le lotte di potere tra lo shogun Hojo e l’imperatore Go-Daigo si riflettevano nello stato di incertezza e di pericolo che attraversava il paese. Dietro ogni angolo di strada si poteva celare un agguato mortale.
Soltanto in apparenza l’imperatore e lo shogun avevano differenti compiti istituzionali. Nella realtà, Go-Daigo e tutto il suo seguito erano mere comparse, marionette prive di qualunque potere.
L’imperatore Go-Daigo, contrariamente a molti suoi predecessori, mal sopportava il suo risicato ruolo: ciò che più desiderava era restaurare l’antico potere imperiale.
Di fatto, tra le due principali autorità del paese regnava una tensione che sempre più spesso si traduceva in sanguinari scontri tra i sostenitori delle opposte fazioni.
Nessuno poteva considerarsi tranquillo sul suolo del Giappone, nemmeno gli esperti samurai che componevano la scorta del generale Ashikaga nel corso della sua visita all’imperatore. Quegli uomini senza paura, abituati al combattimento, si erano schierati attorno a colui che avevano giurato di difendere a costo della loro stessa vita: sembrava che un terribile pericolo incombesse sul drappello che avanzava con circospezione verso la reggia.
E la minaccia si fece palese nel pieno centro della capitale, a pochi passi dalla residenza dell’imperatore Go-Daigo: una ventina di uomini armati parve sbucare dal nulla e assalì il generale e i suoi. Lo scontro, cruento e feroce, durò solo lo spazio di pochi attimi: i samurai di Ashikaga ebbero in breve ragione degli assalitori.
Il comandante della scorta, con il capo celato da una maschera guerriera scolpita in legno di gelso, era stato tra i primi a lanciarsi contro gli assalitori.
Hito Humarawa si mosse con la rapidità di un gatto, estraendo la wakizashi, la corta spada gemella della più lunga katana, che ogni samurai portava al fianco. L’uomo che gli stava di fronte gli rispose con uno sguardo colmo di paura. Invocò pietà con l’ultimo fiato che gli rimaneva in gola. Implacabile, il fendente, portato dal basso verso l’alto, coprì la supplica con un sibilo sinistro. La lama della spada, affilata come un rasoio, aprì uno squarcio nel malcapitato, dall’ombelico allo sterno. Hito Humarawa riassunse la posizione di guardia e rimase a osservare il suo avversario mentre moriva fra atroci tormenti, cercando invano di trattenere le proprie viscere.
Solo quando fu certo che il destino dell’altro era segnato e che tutti gli assalitori erano stati ridotti all’impotenza dal drappello di samurai, Hito Humarawa ripose la wakizashi e si inchinò dinanzi al grande Ashikaga Takauji.
«Mi felicito con te, mio giovane Hito. Ancora una volta mi hai salvato la vita. Quell’uomo mi avrebbe di certo ucciso senza il tuo provvidenziale intervento», disse Ashikaga. «Sei il più valoroso tra i miei samurai.»
Lo sguardo di Humarawa rimase impassibile. Con un movimento studiato ripose la spada nel fodero e raccolse da terra il suo yumi, l’arco lungo oltre due metri. Si guardò attorno, raggelando la piccola folla di curiosi che si era radunata attorno a loro. Poi riprese il cammino lungo le vie della capitale al fianco di quel giovane, quasi suo coetaneo, che ormai tutti chiamavano «il Grande Generale».
«Vedi, Hito», continuò Ashikaga, che non sembrava per nulla scosso dall’imboscata appena subita, mentre si incamminavano verso la residenza imperiale, «la nostra nazione è pervasa dalla vile pratica del tradimento… E tutto ciò accade perché la classe nobiliare e lo stesso imperatore Go-Daigo sono sempre più isolati nei loro lussuosi palazzi. Sono convinto che l’agguato che abbiamo appena subito sia stato opera di una delle tante bande di rinnegati che si aggira per il paese. E gente disperata e disposta a tutto. Quei briganti, vedendo il passaggio di una scorta, hanno pensato a un ricco bottino. Hanno ricevuto quello che si meritavano. Ma le cose dovranno cambiare, e questo vuoto di potere dovrà cessare. Il Giappone è allo sbando. Pare però che l’imperatore abbia forti desideri di restaurazione.»
Hito Humarawa ascoltava il Grande Generale in silenzio, mentre i suoi occhi attenti esaminavano le vie circostanti, nel timore di un nuovo attacco.
Il samurai sapeva che da quell’uomo avrebbe appreso non soltanto i segreti della guerra e del comportamento in battaglia, ma anche la sottile arte della diplomazia, l’opportunismo nel tradimento e la consapevolezza del potere.
Il generale Ashikaga aveva venticinque anni e proveniva da quella che, da oltre un secolo, era riconosciuta come una delle più influenti e potenti famiglie giapponesi. Hito non era per nulla meravigliato che l’imperatore Go-Daigo avesse chiesto di conferire con il generale per questioni di massima urgenza: le forze sotto il comando di Ashikaga erano una variabile di estrema importanza nel caso si volesse tentare di restaurare il potere imperiale. E ognuna delle due fazioni, sia quella restauratrice sia quella che faceva capo alla famiglia degli shogun Hojo, ne era a conoscenza.
Mar Mediterraneo, 1330
La galea del Muqatil si dispose al centro dello schieramento, mentre le altre due navi, più piccole ma assai maneggevoli, assunsero la loro posizione ai lati dell’ammiraglia. Stranamente l’imbarcazione che avevano avvistato continuava a dirigersi verso di loro, senza accennare a invertire la rotta; dapprima come un punto all’orizzonte, poi, via via, sempre più vicino. Il Muqatil distinse sul vessillo i colori dell’emiro Ibn ben Mostoufi. La tensione della battaglia si allentò in quello stesso istante, mentre il Muqatil veniva assalito da un nuovo e nefasto pensiero: l’unica volta in cui una staffetta lo aveva raggiunto era stato in occasione della morte di suo padre. Chissà di quali notizie erano forieri gli ambasciatori a bordo dell’imbarcazione di Ibn ben Mostoufi.
La nave dell’emiro si dispose al vento e le vele triangolari iniziarono a sbattere. L’emissario di Ibn ben Mostoufi prese posto su una scialuppa che si diresse verso la galea.
«Il male sta divorando tuo nonno, l’emiro Ibn ben Mostoufi, Muqatil», gli comunicò il messaggero non appena si furono seduti all’ombra della grande tenda variopinta che copriva buona parte della poppa della galea. «Egli ha espresso il desiderio di vederti, prima che Dio grande e misericordioso si prenda cura di lui.»
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