Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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La grave situazione in Palestina aveva portato il governo in carica alle dimissioni. Dopo l’attacco terroristico all’America e al mondo occidentale, i fragili equilibri dello Stato di Israele sembravano essere stravolti, anche a causa della politica intransigente perseguita dal gabinetto dimissionario.

Nella ricerca di un nuovo capo per il governo israeliano, il nome di Oswald Breil era saltato fuori come un coniglio dal cappello di un illusionista. La stima che il piccolo uomo si era guadagnato sul campo, dapprima come capo del Mossad e dello Shin Beth, poi come viceministro alla Difesa, sembrava essere il collante capace di far combaciare le più diverse opinioni e correnti politiche. Tutti conoscevano la forza di Breil, ne stimavano la determinazione e la limpidezza morale, non comune in chi aveva ricoperto incarichi come quelli nei quali Oswald aveva speso la vita. Breil era l’uomo giusto per Israele, in un momento molto difficile per il mondo intero.

Sara si riscosse dai suoi pensieri e si riconsegnò con tutte le energie al lavoro appassionante che stava occupando la sua mente.

Heian, Giappone, 1326

Hito Humarawa protese le mani in avanti, appoggiandole sul pavimento in ciliegio. Chinò il capo per la prima volta, salutando il sole, simbolo del suo paese. Ripeté il gesto, pronunciando il nome di Go-Daigo, imperatore del Giappone. Distese una terza volta le braccia e di nuovo si inchinò, scandì il nome del Maestro della scuola dei samurai con la sua voce dura e vibrante, nonostante l’età.

Il Maestro si mise dinanzi a lui. Gli occhi del vecchio Mizuno erano penetranti. Nella sua lunga vita aveva educato tanti allievi, quanti i candidi peli della barba a capretta che gli prolungava il mento. Ma mai si era trovato davanti un discepolo con la determinazione di Hito Humarawa. Nessuno possedeva la stessa freddezza e quell’innata capacità di apprendere le arti. Il Maestro preferiva chiamarla freddezza e non malvagità, anche se più di una volta era dovuto intervenire affinché un combattimento tra allievi non si risolvesse in tragedia.

Due giovani affiancarono il Maestro Mizuno. Sorreggevano un’armatura costruita con piastre d’acciaio lamellari laccate, legate tra loro da nastri di seta, e la maschera da combattimento. Altri due tenevano sulle braccia distese la spada, una katana appartenuta al padre di Hito, anch’egli nobile e onorato samurai. Allineato alla spada c’era un arco di bambù la cui corda consisteva in uno spago di seta imbevuto in speciali resine. Mizuno mostrò ai suoi discepoli, ordinatamente seduti lungo il bordo del tatami , il corredo da guerriero; poi comandò di consegnare le armi a Hito, mentre una luce illuminava gli occhi sottili e profondi del giovane samurai.

Hito si inchinò ancora una volta. Due allievi lo circondarono e cominciarono a stringere i legacci dell’armatura attorno al suo corpo muscoloso. Il samurai estrasse la spada, riempiendo il silenzio rituale con un freddo sibilo metallico. Indossò la maschera da guerra: un volto malvagio scolpito in legno di gelso. Quindi pronunciò il solenne giuramento di fedeltà all’imperatore, allo shogun e al bushido , il codice d’onore della nobile casta dei samurai.

Roma, febbraio 2002

Sara Terracini staccò lo sguardo dallo schermo del computer, solo per un istante. Erano trascorsi esattamente sette giorni… Sette giorni e altrettante notti, ma la storia che aveva ricostruito era di straordinario interesse. Un brivido le corse lungo la schiena. In un primo momento, attribuì quella sensazione alla stanchezza e alla soddisfazione di aver finalmente portato a termine il lavoro, poi qualcosa la avvertì che quella scossa aveva a che fare con la paura e il piacere di mettersi alla prova. Le era già capitato: anche stavolta, la bella Sara avrebbe sfidato l’ignoto con il consueto coraggio e la solita determinazione.

Aveva comunque poco tempo per concedersi alle emozioni: da qualche parte, in mezzo al Mediterraneo, due persone stavano aspettando con ansia il diario di Lisicrate, ingegnere ellenico e precettore di Nerone. La verifica di quelle memorie poteva condurre a scoperte eccezionali.

«Vorrei sapere in base a quali criteri un artista decide che la sua opera è davvero finita», si chiese la giovane. «Ogni volta che rileggo il mio lavoro ne modifico delle parti… Ma ora non ho più tempo per intervenire.»

Con movimenti rapidi delle dita impartì al computer i comandi necessari per allegare alla posta elettronica il file denominato La nave d’oro.

«È tutto vostro, amici miei!» disse, premendo il tasto di invio.

In pochi minuti chi l’aveva resa partecipe di quella nuova avventura avrebbe potuto aprire un varco su un’epoca assai lontana.

Sara si sentiva davvero stanca. Rimase per qualche minuto seduta davanti al computer. Erano le undici e mezzo di sera e una buona dormita nel proprio letto, dopo una settimana trascorsa in laboratorio, era quello che le ci voleva. Si alzò, prese la borsa e chiuse alle sue spalle la porta dell’ufficio. La strada alberata dove aveva sede il centro studi, nel quartiere romano dell’EUR, era deserta. Sara si incamminò verso la sua vettura, parcheggiata a qualche isolato di distanza. Faceva freddo e la donna si strinse nel cappotto color cammello. Non prestò molta attenzione ai due orientali che procedevano con passo atletico verso di lei. Troppo tardi si accorse con terrore del tampone quando ormai le veniva premuto sul naso e sulla bocca. Ebbe solo un istante per riconoscere l’odore forte dell’anestetico, poi la mente le si annebbiò.

Las Vegas, febbraio 2002

Il Glamour Hotel era la più recente costruzione sorta nel tempio del gioco d’azzardo, ed era il più sfarzoso hotel mai costruito. In una scenografia degna del migliore set cinematografico, tra fontane zampillanti, cascate d’acqua, piscine e centri termali, l’albergo, con le sue splendide suite, era uno tra i più lussuosi d’America e del mondo.

Antony Sorrentino entrò col suo passo claudicante nella hall. Rispose con un cenno della mano al saluto caloroso dei dipendenti. A lui, la famiglia aveva affidato il compito di gestire quella macchina da soldi rappresentata dalla struttura alberghiera e dall’annesso casinò. Era passato del tempo da quando andava in giro per New York con la paura di venire ammazzato a ogni crocevia. Adesso era un rispettabile uomo d’affari, a capo di un impero che affondava le sue radici nel gioco d’azzardo. Certo, talvolta qualche giornalista spavaldo faceva riemergere gli stretti legami di Antony con le famiglie. Ma erano sufficienti pochi dollari e qualche blanda minaccia per far tacere i più curiosi. Ogni tanto tornava fuori la vecchia storia dell’attentato nel quale Sorrentino aveva quasi perso la gamba destra. Pochi però sapevano che a salvargli la vita era stato un piccolo uomo che adesso si trovava ai vertici di uno degli Stati più importanti del mondo.

Oswald Breil scese da un’anonima utilitaria davanti all’ingresso riservato alla enorme quantità di merci che ogni giorno riceveva il Glamour Hotel di Las Vegas. Sgattaiolò dietro un carrello della lavanderia e si infilò con un balzo agile nell’ascensore di servizio. Estrasse il telefono dalla tasca e compose un numero.

Nei molti anni in cui aveva servito lo Stato di Israele, si era conquistato un’innumerevole schiera di nemici. La maggior parte di questi, almeno coloro che ancora potevano raccontarlo, lo chiamavano con disprezzo «il nano».

C’era comunque una vena di ammirazione e di timore in chiunque parlasse di Oswald Breil, la leggenda vivente. Una leggenda alimentata, forse, anche dalla ridotta statura di uno tra gli uomini più potenti del mondo.

Le dita delle mani si mossero veloci sulla tastiera del telefono: Oswald portò il cellulare all’orecchio e attese che dall’altro capo della linea qualcuno rispondesse.

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