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Marco Buticchi: Le pietre della Luna

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Marco Buticchi Le pietre della Luna
  • Название:
    Le pietre della Luna
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    1997
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-304-1408-5
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Le pietre della Luna: краткое содержание, описание и аннотация

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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I littori precedevano la processione. L’espressione del volto di Cornelia, la Vestale Massima, non poteva lasciare dubbi circa la severità dei suoi modi.

Clelia osservò il portale di bronzo spalancato. Spinse lo sguardo nel tempio sorretto da diciotto colonne poste in cerchio attorno al grande compluvio. Le fiamme del braciere erano alte e rosse, la luce che riflettevano sulle pareti di marmo bianco sapeva davvero infondere la sacra tranquillità familiare a cui il culto di Vesta era votato. Quel fuoco non doveva mai spegnersi, ma ardere perenne, quasi a illuminare la sconfinata maestà dell’impero. Se si spegneva, la sacerdotessa responsabile della terribile sventura veniva punita personalmente dal Pontefice Massimo con la sferza. Il fuoco veniva poi riacceso non già usando un fuoco preesistente, ma creandone uno nuovo e incontaminato con gli specchi ustori.

Novaesium. Valle del Reno.

Anno 825 dalla Fondazione di Roma.

[72 d.C. (N.D.T.)]

L’inverno calava spinto dai primi venti gelidi di Aquilone. Al loro seguito sarebbero venute le nevi a ricoprire ogni cosa e a rendere impossibile qualsiasi attività militare. Per le truppe era tempo di riparare gradualmente all’interno del campo stabile, nella bassa valle del fiume. I quattro manipoli si erano messi in marcia alle prime luci. La brezza gelida si incuneava vorticosa tra i passi montani, acquistando ancor più vigore prima di abbattersi sulle file dei legionari.

Il carro del legato Cestio era esattamente al centro dello schieramento, che marciava in formazione ordinata nonostante le asperità del sentiero. Giunio non si accorse subito del pericolo. La pioggia di dardi infuocati piombò su di loro senza preavviso, seminando morte e scompiglio. Gli uomini ruppero le file, cercando improbabili ripari nel terreno brullo e pianeggiante.

Giunio vide le due pariglie trascinare via il carro del legato; i cavalli correvano come impazziti, una scia di fumo bianco si disperdeva nell’aria al loro seguito. Finché il carro non avvampò in una fulminea fiammata, non consentendo scampo a nessuno degli occupanti. Giunio osservò impotente i loro corpi ardere come faci, più volte intravide figure umane torcersi avvolte dalle fiamme. Nessuno riuscì a intervenire.

Già il tribuno Marzio si aggirava sul campo dell’agguato, cercando di ripristinare con la sicura calma dei suoi ordini gli schieramenti, di organizzare le difese. I militi romani erano intrappolati nella gola, in completa balia degli arcieri germani che li tenevano sotto tiro da una posizione elevata.

Giunio alzò lo sguardo: riuscì a distinguere le traiettorie delle frecce infuocate e il punto da cui venivano scagliate, dall’alto degli speroni di roccia, due o trecento piedi sopra di loro. Valutò che i nemici non dovevano essere molti, al massimo una trentina, ma erano comunque riusciti a immobilizzare i romani e li stavano decimando. Quando Marzio gli si avvicinò, stava ancora osservando attentamente un canalone che saliva a perpendicolo, restringendosi in diversi punti. Dagli spazi pianeggianti, lungo la costa, in cui erano appostati, i germani non potevano tenere sotto controllo quella fenditura nel fianco della montagna.

«Cestio è morto, Giunio», lo informò il tribuno, con una voce capace di levarsi sopra le grida dei fanti, «e temo che presto molti di noi faranno la stessa fine. Dobbiamo a ogni costo respingere l’assalto.»

Preso da una repentina ispirazione, ma senza rinunciare al tono deferente, Giunio lo pregò di ordinare che venissero approntate due catapulte. Sapeva bene che i proiettili non avrebbero mai potuto raggiungere le alture da cui i germani li tenevano sotto tiro: la mossa non era che uno stratagemma per tenere concentrati gli assalitori su un bersaglio, mentre lui avrebbe tentato di scalare il canalone e di cogliere i nemici alle spalle.

Chiese il permesso di condurre con sé dieci arcieri siriaci e una ventina di uomini scelti tra i più agili e valorosi. Cominciarono a salire, aggrappandosi agli spuntoni di roccia e puntando i piedi sui provvidenziali sostegni offerti dal fianco della montagna. Le grida dei legionari in difficoltà arrivavano fino a loro distinte, stimolandoli ad attaccare la parete con ancor più veemente vigore.

Quando finalmente affrontarono l’ultimo tratto, avevano tutti le mani e le gambe escoriate e indolenzite. Il camino nella roccia era poco più largo delle loro spalle, ma, puntellandosi con i piedi su un versante e con la schiena su quello opposto, gli uomini erano riusciti a issarsi a due per volta. Raggiunta la meta, si raccolsero in una zona pianeggiante per organizzarsi.

Un’altura coperta di vegetazione impediva loro di vedere i germani, ma per fortuna lo stesso valeva per i nemici. Strisciarono nel silenzio più assoluto fino alla macchia di cespugli. Appena superato il crinale, Giunio avvistò i germani: almeno venticinque arcieri, disposti di spalle immediatamente sul ciglio del precipizio. Dietro a quelli erano appostati una decina di uomini, con il compito di intingere i dardi nella pece rovente e di incendiare le punte delle frecce incoccate nell’arco. Osservò i suoi siriaci che, con perfetta, silenziosa, ammirevole disciplina, si disponevano in linea. Vide le corde dei loro archi tendersi all’unisono. Le frecce avevano le piume della cocca disposte a spirale, in modo da imprimere un moto circolare al dardo. La penetrazione nell’aria diventava maggiore, con conseguente aumento della gittata e della precisione.

Attesero il segnale, immobili come cani che avessero fiutato la preda, quindi rilasciarono le corde, tese fino quasi a spezzarsi. Le dieci frecce raggiunsero i bersagli con precisione, sebbene i nemici si trovassero a una sessantina di passi. Vide molti dei germani cadere trafitti da tergo e gli altri chiaramente disorientati dall’attacco improvviso. Non diede loro il tempo di organizzarsi e, mentre i suoi arcieri si preparavano a un nuovo lancio, esortò gli assalitori all’attacco. Molti dei nemici non fecero quasi nemmeno in tempo a impugnare la spada.

Qualche istante più tardi si affacciavano vittoriosi sul bordo del precipizio. I legionari imprigionati nella valle li riconobbero, prorompendo in un liberatorio urlo di gioia e trionfo. Il giovane e ardito comandante avevo perso solamente due uomini, e altrettanti erano rimasti feriti in maniera lieve.

Scescero dalla vetta mentre il sole calava. Marzio venne loro incontro. A Giunio i suoi modi erano ormai ben noti: accadeva di rado che si lasciasse andare a frasi adulatorie o a celebrare i successi dei suoi uomini. Un suo sguardo era sufficiente a infondere esaltazione o, per converso, l’onta della punizione.

«Grazie, centurione Giunio!» furono le sole parole che disse. «A te e ai tuoi uomini.» Tanto bastava.

La notte fu trascorsa in un campo improvvisato, poco distante dalla gola dell’imboscata. Il giorno seguente, alle prime luci, la carovana riprese il cammino verso la cittadella militare. Marzio volle che il centurione lo raggiungesse alla testa della colonna; dopo la morte di Cestio, il comando era ormai di sua esclusiva pertinenza. Nell’animo di tutti albergava la certezza che sarebbe presto arrivata da Roma la sua nomina a legato dell’impero.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Trascorsi alcuni mesi, Clelia aveva visto perlomeno appannarsi gli entusiasmi dei primi tempi. Le giornate delle aspiranti erano piatte e monotone. Concluse le abluzioni obbligatorie e l’istruzione mattutina, cominciavano le ormai abituali operazioni sacre, sempre uguali, ripetitive, scandite dalla disciplina di ferro e dagli aspri rimbrotti dell’inflessibile Cornelia cui erano affidate. In pratica le giovani avevano tutti gli obblighi di una vera sacerdotessa, non ricevendo in cambio alcuno dei molti privilegi a esse riservati.

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