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Marco Buticchi: Le pietre della Luna

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Marco Buticchi Le pietre della Luna
  • Название:
    Le pietre della Luna
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    1997
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-304-1408-5
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Le pietre della Luna: краткое содержание, описание и аннотация

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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Le prime parole erano semplicissime. Dicevano: Regio~e Re~ia. Confine No~d Orientale de lo I~pero Ro~ano. Anno 823 de ~a Fo~da~ione de Ro~a. Perfettamente comprensibili, nonostante i caratteri non riconosciuti dalla macchina.

Qualche problema cominciava invece appena sotto, stile aulico e involuto del testo, che era sì comprensibile ma difficile da rendere in una lingua moderna.

«Infelice mortale», cominciò a digitare Sara, «egli che mai avrà vissuto della pugna il clamore. Costui, certo, mai potrà giungere a fantasticare» — a fantasticare ? Uhm, pensò tra sé Sara — «le emozioni dei guerrieri, l’intensità dello spirito…» Bello, però… Smise di digitare, meditabonda.

In quel preciso istante lo squillare imperioso della campana e lo sventolare della bandierina nell’angolo in alto l’avvertirono dell’arrivo di un nuovo messaggio. Nella stretta finestra nera al piede dello schermo vide scorrere velocemente le seguenti parole: NIENTE VOLI PINDARICI, COMUNQUE. MI RACCOMANDO. NIENTE *LETTERATURA*. IN QUESTO MOMENTO ABBIAMO PRIMA DI TUTTO BISOGNO DI *CAPIRE*, NON DI *EMOZIONARCI* PER LA BELLEZZA DELLA PROSA. CASO MAI, *RIASSUMI* E, SE NECESSARIO, *INTEGRA* CON GIUDIZIO.

Digitò CTRL-R e compose immediatamente la risposta. Una semplicissima sigla, seguita da una parola e da un punto esclamativo: OK. OK. ACCIDENTI!

BENISSIMO, BUON LAVORO, fu la laconica conclusione del brevissimo scambio elettronico di battute.

Sara scoppiò in una fresca risata. Accidenti davvero. Dannato Oswald Breil, era capace di leggere nel pensiero anche attraverso le reti telematiche, a migliaia di chilometri di distanza? Diavolo di un uomo. Sì, diavolo di un uomo. Del resto, lo sapeva già che era fatto così.

Le sembrava di vederlo, appollaiato di fronte a una centrale di computer persino più complessa e futuribile di quella davanti a cui era seduta lei, in mezzo a un’intera selva di dischi rigidi, dischi ottici, lettori, decodificatori, scanner, diavolerie, con la grossa testa china verso lo schermo e i piedi sollevati da terra. Diavolo di un omino. Di un… ma sì: di un nano ! Amatissimo nano.

Okay, Oswald, mormorò tra sé. Niente voli pindarici, niente *letteratura*. Abbiamo bisogno di *capire*. Ancora ridendo, riprese alacremente a digitare sui tasti la sua trascrizione.

PARTE PRIMA

TERRA

Le radici

1.

Regione Rezia. Confine nordorientale dell’impero romano.

Anno 823 dalla Fondazione di Roma.

[70 d.C. (N.D.T.)]

Chi non ha mai conosciuto il clamore della battaglia non può nemmeno immaginare le sensazioni dei combattenti: l’intensità del pensiero, che quasi si materializza e prende forma tra i fumi dell’atmosfera irreale e caotica che precede lo scontro. La paura di morire, certo, anche quella. Ma, per contro, il desiderio di sopraffare, di vincere, di uccidere il nemico.

Ci eravamo fronteggiati per tre giorni senza che nessuno dei due eserciti accennasse ad assumere uno schieramento definito, ognuno sui due versanti della valle del Reno. Ormai le formazioni si trovavano a poche centinaia di cubiti l’una dall’altra, pronte all’attacco. I germani erano forse in numero inferiore ai dodicimila uomini della legione, ma non per questo da sottovalutare: sono un popolo guerriero, che sa combattere con una ferocia senza pari.

Controllai i legacci che mi assicuravano alla schiena la faretra con i sette giavellotti. Da lontano sentivo arrivare lo scalpiccio della cavalleria e i nitriti inquieti degli animali. Sapevo per esperienza che erano i rumori cui dovevo prestare la massima attenzione: compito delle nostre squadre era balzare fuori dallo schieramento prima che le formazioni venissero a contatto e, di concerto con la cavalleria, produrre una prima azione di disturbo. L’unico segnale, per i quindici uomini che comandavo, sarebbe stato il tuonare del galoppo.

La pelle di lupo mi scendeva lungo la schiena, le fauci spalancate dell’animale sovrastavano minacciose la mia fronte. Lo squillo di tromba scosse tutti da un apparente torpore. Muovemmo quasi all’unisono, lasciando aperti pochissimi varchi tra gli scudi e le lance della prima linea.

Ormai distinguevo perfettamente il nemico, vedevo il balenare sinistro delle armi, i visi feroci, gli occhi… Ecco arrivato il momento: vedevamo lo scuro delle pupille, dovevamo attaccare! Fu sufficiente un cenno: sgusciammo agili tra gli scudi dei nostri e ci scagliammo in avanti, bilanciando nelle mani il primo dei giavellotti. Qualcuno dei legionari urlava, forse per farsi coraggio; io preferivo mantenere il controllo della mente. Calcolai la distanza e identificai il mio bersaglio: un barbaro dai lunghi capelli. Inarcai la schiena e lasciai partire il pilum. Non potevo rimanere fermo a controllare l’esito del lancio: dovevo scoccare i giavellotti prima che il nemico ci fosse addosso o prima che le avanguardie della legione ci sopravanzassero. Finita la nostra azione saremmo stati risucchiati all’interno dello schieramento, pronti a sguainare la spada.

Una volta riguadagnata la nostra postazione alle spalle degli astati, non ci fu quasi il tempo di riprendere fiato. Immediato e formidabile sentii arrivare l’urlo dei guerrieri, seguito dal cozzo delle armi. Vidi le spalle dei legionari della prima linea contrarsi per reggere lo scontro, pochi passi dinanzi a me. Sguainai la corta spada e mi preparai a combattere.

La battaglia era cominciata da poco, e ancora nessuno dei due eserciti aveva abbandonato lo schieramento originario; lo spostarsi avanti e indietro per pochi passi delle due avanguardie assomigliava all’onda senza fine di un mare in tempesta. Sentii passare di bocca in bocca un urlo: «Hanno sfondato, sulla destra». Sapevo quale pericolo si celasse in quella frase. Voltatomi istintivamente, vidi che una parte dei nostri guerrieri sbandava senza ordine, costretta alla ritirata da un centinaio di barbari. Ordinai ai miei di seguirmi: dovevamo assolutamente tentare di chiudere quel varco e interrompere la penetrazione tra le nostre linee. Cogliemmo i nemici alle spalle; davanti a noi l’avanguardia della legione si richiuse ermeticamente, imprigionando il manipolo di germani in un tranello mortale.

Combattevo con impeto e con una straordinaria lucidità di mente. Più volte mi trovai a tu per tu con il nemico e ingaggiai feroci corpo a corpo, avendo sempre la meglio. La cosa che maggiormente mi esaltava, più che uccidere, era guardare negli occhi lo sfidante, riconoscervi la paura dopo i primi colpi di gladio e infine vederlo fuggire disperatamente. Spettacolo non frequente, con i germani: erano uomini votati alla morte, per niente al mondo propensi a ritirarsi se avevano ingaggiato un duello.

Lo scontro si protraeva ormai da parecchio tempo, e il compatto fronte iniziale si era frantumato in diversi focolai di battaglia. La legione stava avendo la meglio. Le frecce incendiarie degli arcieri avevano disseminato il campo di piccoli fuochi, che arrivavano spesso a piantare le loro radici nel costato di un guerriero.

Riconobbi a poca distanza da me il nostro generale Publio Marzio. Montava uno stallone nero come la notte. Lo vidi lanciarsi tra una selva di uomini spronando l’animale. Per un attimo scomparve, poi la sua figura si stagliò netta, la spada animosamente in pugno, le ginocchia serrate sui fianchi del cavallo. Lo osservai menare fendenti poderosi; sembrava persino, pur da quella distanza, di sentire il sibilo della lama. Distolsi lo sguardo dal nostro tribuno e lo rivolsi alla collina, da dove, davanti alla sua tenda, attorniato da strateghi e guardie personali, il legato imperiale ci stava osservando.

Ma il vero condottiero di tutti noi era Marzio; era lui a darci l’esempio con il suo comportamento. Sapevo che schemi e tattiche da noi adottati in battaglia erano frutto della sua mente. Il legato Cestio era soprattutto una figura simbolica, un buon padre di nobile famiglia, inviato a compiere la carriera d’obbligo presso una legione ai margini estremi dell’impero. Tornai a guardare in direzione del tribuno. Un movimento alle sue spalle attrasse la mia attenzione. Con grande preoccupazione mi accorsi che un barbaro stava correndo verso di lui; di lì a qualche istante gli sarebbe stato addosso da tergo.

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