Pete Dayle aveva insistito a lungo perché quella sera si incontrassero con Oswald. Per fare il punto della situazione, aveva detto. E alla fine lei aveva accettato, soprattutto in considerazione del fatto che anche Breil le aveva chiesto di parlarle.
Desiderava molto incontrarlo, prima di tutto per il piacere che le dava sempre lo stare con lui, e poi perché era animata da una profonda curiosità. Non lo vedeva da quando si era lasciata convincere a mostrargli la lettera di Kevin e a consegnargli il muffoso blocco di carta incartapecorita. Breil le aveva assicurato di poterlo far restaurare e decifrare da un’amica, di cui non aveva però voluto dirle niente.
Dayle, invece, non lo vedeva da prima dell’incidente, sebbene gli avesse spesso parlato al telefono. Li vide arrivare insieme, poco dopo l’orario di chiusura del museo.
«Sei sempre bellissima, Laura», la salutò Oswald, chinandosi con la solita spontanea gentilezza a sfiorarle la mano con le labbra.
Appena si furono accomodati nel suo studio privato, fu Pete a prendere la parola. «Adesso credo che il caso U115 sia veramente concluso», esordì. «Ma, prima di procedere alla definitiva archiviazione, la mia posizione nell’Agency mi impone di chiedervi se siete entrati in possesso di ulteriori informazioni e, nel caso, se le avete trasmesse a qualcuno.»
Laura non aveva nessuna intenzione di rivelargli il contenuto della lettera di Kevin; non lo avrebbe mai fatto. A che scopo? L’aveva mostrata solamente a Breil, in un momento di sconforto. Ma per fortuna fu lo stesso Oswald a prendere subito la parola per rispondere.
Parlò a lungo, riassumendo e spiegando il quadro storico messo pazientemente insieme tassello per tassello come un mosaico. Lo fece in piena sincerità, non nascondendo niente ai compagni d’indagine.
«Purtroppo, però», concluse, «non esistono documenti che dimostrino gli appoggi locali di cui Hitler ha goduto nel corso del suo soggiorno americano. Anche se deve per forza esserci stato un basista che si è preoccupato di sistemarlo qui, ormai libero e persino più ricco di prima. Un giorno o l’altro mi metterò magari a cercarlo per mia soddisfazione personale.»
Così detto, lasciò intendere di non aver altro da aggiungere e si dichiarò favorevole all’archiviazione del caso. Nelle alte sfere, di sicuro nessuno si sarebbe mai preso la responsabilità di raccontare al mondo che il Führer era sopravvissuto. E a quel punto s’interruppe un istante.
«Però, Pete, dovrei chiederti di spiegarmi una cosa…» riprese poi in tono casuale.
Il dirigente della CIA impallidì visibilmente. Un sorriso gli si dipinse sulle labbra, mentre nella sua mano destra compariva come per incanto una Beretta bifilare.
«Sarò felice di rispondere a qualsiasi tua domanda, Oswald. Anche perché il vostro destino è segnato», replicò, mentre Laura lo guardava allibita.
«Comunque, fino a questo punto è tutto esatto, professore nano, tranne un piccolo particolare: ovvero, che adesso il capo incontrastato della Lobby di Trafalgar sono io.»
Oswald rimase imperturbabile, anche se dentro di sé era in tumulto. Non avrebbe mai immaginato che la sorte potesse essergli così favorevole, che Dayle perdesse la testa e cedesse di schianto in quel modo sconsiderato, autodenunciandosi.
«Gran bella soddisfazione, Pete», replicò senza battere ciglio. «Essere il capo indiscusso di un esercito senza nemmeno un soldato. Congratulazioni.»
«Sai quanti soldati si possono comperare con un miliardo circa di dollari in oro e pietre preziose? Quel cretino di Rustom stava veramente perdendo il controllo della situazione», ribatté Dayle con un’espressione di follia nello sguardo. «Caro nanerottolo, non sei affatto bravo come credi. E di errori ne hai fatti almeno altri due. Evidentemente credi alle favole. Come hai potuto lasciarti convincere che Rustom si fosse veramente suicidato? Pensi che un simile rottame umano sarebbe mai riuscito a strappare di mano un mitragliatore a una delle mie guardie? Mi fai pena. Inoltre, nella tua ricostruzione da primo della classe ti sei scordato del terzo testimone a bordo dello yacht di Sachs!»
«No, Pete, non me ne sono affatto dimenticate», replicò Oswald, compunto proprio come un primo della classe sicuro di aver imparato la lezione a memoria e quindi di non poter essere colto in castagna. «L’avventuriera bionda, che non eravamo riusciti a identificare, la basista del Führer sul suolo americano, si chiamava…»
Il colpo di pistola gli tagliò le parole in bocca. Il proiettile gli si conficcò nel ginocchio sinistro, facendolo cadere a terra con una smorfia di dolore.
«Questo per insegnarti ad avere più rispetto per mia madre!» urlò Dayle.
Oswald cercò di mantenere i nervi saldi e di vincere il dolore. L’unico modo per tentare di salvare se stesso e l’incolpevole Laura era prendere tempo e cercare di far saltare definitivamente i nervi a Dayle.
«Non le manco di rispetto, Pete. La realtà è quella. Faceva l’unico mestiere che sapeva fare. La puttana di lusso. Ecco quindi definitivamente spiegati i sabotaggi alle cariche, il presunto suicidio di Rustom e…»
Dayle lo interruppe con una risata sgangherata, gli occhi stravolti da una definitiva luce di follia.
«Bravo, nano, bravo. Meriteresti la lode. Purtroppo, però, i miei uomini non sono riusciti a eliminare le persone in grado di svelare i segreti della Lobby di Trafalgar. Quindi devo pensarci io», urlò. «Pace all’anima tua, Oswald!»
Come Breil sperava, gli erano completamente saltati i nervi. Gli tremava visibilmente la mano.
Il proiettile si perse nell’imbottitura di un divano alle sue spalle.
Atterrita, Laura vide Dayle stringere istericamente l’arma con entrambe le mani, prendere la mira e apprestarsi a esplodere una raffica mortale di colpi.
Toccava a lei. La forza della disperazione diede impeto al suo repentino balzo in avanti, le sue unghie si conficcarono nella carne del braccio teso di Pete. Lo tirò verso di sé con tutta la forza che si era sentita nascere in corpo, e per un attimo l’uomo sembrò perdere l’equilibrio, ma si ricompose quasi immediatamente. Laura si ritrovò a terra dolorante, con la canna della pistola piantata in mezzo agli occhi.
«Addio, splendida Laura», sentì dire dalla voce impazzita dell’uomo che un tempo aveva saputo smascherare come infiltrato della CIA nei gruppi di studenti contestatori, ma che mai avrebbe sospettato nel ruolo di un mortale nemico in quell’operazione. Aveva già chiuso gli occhi. Sentì lo sparo echeggiare contro le pareti della stanza.
Attese la morte a occhi chiusi, ma non la sentì venire. Dopo qualche istante si rese conto di non provare alcun dolore. Aprì gli occhi. Incredula, vide davanti a sé Dayle che barcollava: da un foro rosso, esattamente al centro della fronte, usciva un fiotto di sangue scarlatto. Le cadde quasi addosso, rovinosamente. Riuscì a scansarlo con un balzo laterale di cui non si sarebbe mai ritenuta capace.
Seduto sul pavimento macchiato del sangue che gli usciva abbondante dal ginocchio, Oswald stringeva ancora nella destra l’automatica Uzi. Ebbe la forza di strizzarle un occhio, ma poi li chiuse tutti e due, con una nuova smorfia di dolore. Buffa, questa volta, sebbene autentica.
Laura corse a inginocchiarsi al suo fianco.
Miami. Florida. Jackson Memorial Hospital. 15 giugno 1996.
Il Ryder Trauma Center è il reparto più all’avanguardia del Jackson Memorial Hospital di Miami. Laura indossò con trepidazione gli indumenti sterilizzati. Quindi dovette fare una breve sosta nella camera di decontaminazione, abbagliata dalle lampade ultraviolette. Infine poté entrare nella stanza.
Il suo piccolo amico era steso sul letto, sopra cui pendevano inerti i pesi della trazione ortopedica. Oswald si voltò a guardarla, e il suo viso si aprì in un sorriso da monello, mentre la gola di Laura si strozzava in un singhiozzo.
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