I due uomini che avevano cercato di distruggere la sua vita giacevano riversi in un lago di sangue, quasi avvinghiati in un indecente atto di sodomia, così come erano stati uniti nell’ordire tante macchinazioni.
Nelle lunghe ore trascorse in solitudine nelle terme, Giunio aveva studiato con la massima attenzione la disposizione degli ambienti. Recuperati e gettatisi addosso la lunga tunica africana e il turbante, si era già dileguato per un’uscita secondaria.
La sua vendetta era compiuta. Giustizia era fatta.
Cape Canaveral. Florida. Kennedy Space Center.
2 maggio 1996.
La navicella spaziale era in posizione verticale a ridosso della grigia rampa di lancio. Il serbatoio di idrogeno liquido da trecentottantamila galloni svettava di molto sopra la prua dello Shuttle. Il conto alla rovescia era cominciato già da due giorni. Le condizioni meteorologiche erano ideali per il lancio.
Kevin Dimarzio era ospitato nella residenza riservata al comandante della missione, una villetta poco distante dagli alloggi del centro spaziale. Laura, che non era riuscita a chiudere occhio tutta notte, aspettava che uscisse dallo spogliatoio annesso al bagno. Se lo vide venire incontro già pronto, nella tuta verde con gli stemmi della NASA che brillavano dei loro colori vivaci. Non aveva bisogno di porsi domande, sapeva di trepidare per lui, di amarlo. Gli andò incontro a sua volta, nascondendosi il cofanetto dietro la schiena.
«Ho deciso di consegnarti questi oggetti prima che tu parta, Kevin. Ho visto come li guardavi, ogni volta che sei venuto al museo. Sembrava quasi che fra voi si fosse stabilito un rapporto segreto. Sono convinta che ti faranno compagnia nel corso del viaggio. Ma, soprattutto, te li consegno come augurio che me li riporterai.»
Il colonnello aprì lentamente il coperchio del cofanetto. Le Pietre della Luna comparvero sfavillanti nei loro riflessi dorati. Kevin sapeva quanto fossero importanti quelle statuette per la sua compagna. Ma sapeva tante altre cose, che non aveva mai rivelato a nessuno.
Ringraziò con un sorriso pieno di gratitudine la donna che anche lui aveva scoperto di amare, chiuse coperchio e fermaglio e infilò il cofanetto nella borsa di tela che avrebbe portato con sé.
«Non temere, Laura», rispose. «Te li riporterò.»
«Non temo soltanto per te», replicò lei, appoggiandogli la testa sul petto e parlando d’un fiato, «ma anche per il figlio che mi sta crescendo in grembo.»
Pronunciate queste parole, si sentì sollevare da un terribile peso. Aveva dibattuto a lungo tra sé sull’opportunità di rivelargli la sua gravidanza, ma alla fine aveva deciso di farlo. Sperava che la notizia gli fosse di stimolo e lo aiutasse a tornare sulla Terra per vedere l’erede, amarlo ed educarlo.
Kevin la strinse in un abbraccio appassionato, quindi le diede un tenero bacio sulla bocca e mormorò: «Ti amo, Laura Joanson. E ti ringrazio. Mi hai dato la notizia più bella della mia vita. Nostro figlio sarà meraviglioso come lo è il nostro amore. Riporterò sulla Terra i tre portafortuna per te e per lui».
Uscì dalla villetta che era ancora buio. Raggiunse la saletta ai piedi della rampa circa un’ora più tardi, dopo aver indossato la tuta bianca di volo. I membri del suo equipaggio erano già lì seduti nelle poltroncine, impegnati negli ultimi controlli medici. Salutò il copilota, il tecnico di bordo e i due tecnici di testate nucleari. La tensione era fortissima, quasi fisicamente avvertibile.
Dopo qualche istante, come prevedeva la prassi, furono raggiunti dal generale Steps, responsabile degli equipaggi. Ma Kevin rimase allibito. Alle sue spalle aveva visto fare capolino Gregory Bender. Anche lui in tuta di volo. Il suo dubbio divenne certezza non appena sentì l’anziano premio Nobel dire, con un sorriso da monello: «Non fare quella faccia, Kevin. È tanto tempo che mi addestro a tua insaputa, per abituarmi all’assenza di gravità e alla forza di accelerazione. Te lo leggo negli occhi: vorresti obiettare che ho quasi settant’anni, vero? Be’, l’esperienza spaziale manca al mio curriculum, e non voglio perdere questa occasione unica per farla».
«Non è il momento di scherzare, Greg», ribatté Kevin in tono profondamente irritato, scoccando uno sguardo di ghiaccio in direzione del generale Steps. «Non so chi sia il responsabile di questa buffonata, ma so di sicuro che non posso accettarla come membro di un equipaggio che lavora in assoluta sintonia da mesi.»
«Ho sovrinteso personalmente alla costruzione delle stazioni missilistiche spaziali», replicò Bender in un tono fattosi improvvisamente serio e determinato. «Conosco quegli arnesi componente per componente, circuito per circuito, vite per vite. Credo che lassù ti sarò molto più utile di quanto tu possa immaginarti, Kevin Dimarzio. D’altra parte, ti ho sentito ripetere più volte a Laura che ormai un viaggio spaziale a bordo dello Shuttle assomiglia sempre più a un tranquillo volo intercontinentale. Vuoi smentirti proprio adesso?»
Ferdinand Steps porse un foglio al comandante della missione: «È un messaggio del presidente degli Stati Uniti, che ti prega caldamente di accettare a bordo il professor Bender, Dimarzio. Un eufemismo burocratico per dirti che te lo ordina», tagliò corto.
Kevin scosse la testa e, senza aggiungere altro, puntò risoluto con tutto l’equipaggio verso l’ascensore che li avrebbe portati al portello d’imbarco.
Roma imperiale. Anno 849 dalla Fondazione.
[96 d.C. (N.D.T.)]
La notizia della morte di Menenio percorse tutta la città in un baleno. Quasi fosse il segnale della rivolta, il popolo scese nelle piazze armato di tutto ciò che aveva a disposizione, immediatamente spalleggiato da molti militari in congedo e in servizio. Si ribellarono anche le legioni ai confini nord-orientali, che puntarono su Roma a tappe forzate. Domiziano cadde vittima di una congiura, ucciso dalla stessa arte in cui si era dimostrato tanto abile da esasperare ogni cittadino romano.
Giunio combatté a fianco dei rivoltosi per diversi giorni, nella ferma convinzione che fosse l’unico modo per riabilitare il suo nome dall’infamia da cui era stato macchiato.
Cocceio Nerva, il magistrato imparentato con Marzio che anni prima si era onestamente interessato al suo caso, fu acclamato principe della romanità. Giunio era tra gli uomini della sua cerchia più intima quando pronunziò il primo discorso nella piazza del Foro, gremita di popolo festante.
«Assumo il comando dell’impero in vostro nome e per vostra volontà», dichiarò Cocceio. «Giuro davanti agli dei che assolverò a questo divino ufficio secondo gli stessi principi di equità e giustizia che hanno ispirato la mia carriera di magistrato. Sono molte le stirpi nobili che, in questi anni di malsano dominio, la gens Flavia ha voluto ferire, se non addirittura annientare.
«Unici protagonisti della vita politica di Roma sembravano diventati i tradimenti e le congiure. Troppo spesso abbiamo visto calpestati dalla crudeltà di Domiziano i nostri ideali. Il compito che mi accingo a intraprendere non sarà facile, ma vi assicuro, cittadini di Roma, che a dare luce al mio cammino sarà unicamente la Giustizia.»
Dalla folla si levò un’acclamazione. Gli ultimi anni dell’impero di Domiziano erano stati veramente penosi per chiunque non fosse nelle grazie dell’imperatore o dei suoi scherani. Tutti gli altri cittadini di Roma, dal più nobile dei cavalieri all’ultimo degli uomini liberi, erano trattati alla stregua di schiavi, e la loro vita non voleva più di pochi assi.
«Temo», continuò Nerva, «che non riuscirò a rendere giustizia a tutte le vittime del mio predecessore. Non basterebbero dieci vite per porre rimedio alle sole malefatte di Domiziano. Voglio però riabilitare pubblicamente e definitivamente agli occhi dei romani la figura di un eroe dell’impero che, in venti anni di spietate e ingiuste persecuzioni da parte dei Flavii e dei loro sgherri, ha visto morire i genitori e le persone che gli erano più care.
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