Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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E troppo tardi i presuntuosi sapienti dello spazio avevano preso atto di quello che stava per succedere al loro pianeta. Ovvero, troppo tardi sarebbe stato se Laura Joanson, Kevin Dimarzio e l’anziano professor Bender non avessero portato avanti con puntiglio il loro lavoro tra tante ostilità ottuse e colpevoli. Certo, alla luce delle certezze scientifiche, il piano da loro elaborato presentava più di un aspetto di preoccupante sommarietà, ma i tre erano fermamente sicuri del suo successo. In ogni caso, era l’unica carta da giocare, l’unico tentativo in grado — forse — di salvare l’umanità dal disastro.

«Dio sa quanto avrei voluto che i nostri timori venissero smentiti», disse Greg Bender, mentre Laura e Kevin pendevano letteralmente dalle sue labbra. Davanti a loro il tavolo era coperto di mappe e tabulati di computer.

«D’altra parte, gridare ai quattro venti che avevamo ragione non servirebbe a niente. Dobbiamo assolutamente passare all’azione e attuare il piano che abbiamo studiato a tavolino. I calcoli sono di una precisione assoluta. Ormai mancano soltanto ventisei giorni all’impatto.»

Così detto, Bender prese una foto dell’asteroide Speitz-42, ricostruita grazie alle immagini del radiotelescopio di monte Palomar, e, indicando una zona più scura sulla crosta della gigantesca sfera di rocce spaziali, continuò:

«Questo è un cratere che penetra nelle viscere dell’asteroide. Se si riuscisse a piazzare in questo punto una carica di seicento chili di esplosivo nucleare, quasi sicuramente le pareti di roccia si trasformerebbero in un cono propulsore e, sotto la spinta dell’esplosione atomica, l’asteroide devierebbe di diversi gradi dall’orbita attuale, scongiurando il pericolo che si abbatta sulla Terra».

«Ma come facciamo a trovare tutta questa potenza?» chiese Kevin. «Ha detto lei stesso che nello spazio ruotano testate nucleari complessivamente pari a circa seicento volte la bomba di Hiroshima, sicché, per raggiungere il nostro scopo, siamo in debito di quasi duecento chilogrammi di esplosivo nucleare, che non mi sembrano davvero pochi. Inoltre, quand’anche fossimo sicuri di disporre del potere detonante necessario, come faremmo a guidarlo con precisione nel cratere?»

«I sovietici, tanto per non essere da meno, hanno messo a loro volta in orbita subito dopo di noi due stazioni missilistiche, che adesso, per mancanza di fondi e in conseguenza del vuoto di potere sopravvenuto, sono abbandonate nello spazio. Basterebbe raggiungerle e servirsi…» rispose Bender, meditabondo. «Per correttezza», continuò, «ho comunque informato il premier russo dell’emergenza, e Eltsin ha assicurato la sua massima disponibilità. Un esperto di testate nucleari si sta già allenando nella base spaziale di Gorny. Farà parte del suo equipaggio, colonnello. Mi scusi se non l’ho informata prima, ma la massima segretezza era di rigore. Veniamo quindi al vettore.»

Bender estrasse diverse foto da una cartellina e riprese: «Non mi sono limitato a contattare i russi. E per fortuna, una volta tanto, di fronte alla catastrofe è scattata una vasta solidarietà tra le potenze. Questo è Long March 4, un razzo vettore usato negli esperimenti della repubblica popolare cinese. Pesa a vuoto novemila libbre, e le dimensioni ne consentono il trasporto nella stiva dello Shuttle. Il muso è capiente quanto basta per accogliere tutte le nostre testate. È sufficiente che una sola di queste sia innescata per provocare un’esplosione a catena di tutte le altre.

«Il governo di Pechino ne ha messo a disposizione un esemplare, che è già in viaggio verso il Kennedy Space Center, dove verrà adattato al trasporto. Per quanto concerne la mira, però, è vero: la faccenda si complica parecchio. La velocità dell’asteroide, una volta definitivamente scaricato dall’orbita lunare, si attesterà attorno ai duecentotrentamila chilometri orari. Nessun razzo e nessun sistema di puntamento elettronico, anche in assenza di gravità, potrebbe mai seguire una meteora che viaggia nello spazio a quella velocità. La finestra di tiro durerà soltanto pochi secondi, non appena l’asteroide spunterà da dietro la luna per dirigersi verso la Terra.»

Roma imperiale. Anno 849 dalla Fondazione.

[96 d.C. (N.D.T.)]

Il vapore diffuso nell’aria limitava la visibilità. Tra i fumi, Giunio scorse Menenio e Sestilio che andavano a sistemarsi sulla gradinata in marmo, a non molta distanza da dove aveva nascosto le armi, mettendosi a chiacchierare animatamente, finché, di punto in bianco, il primo non tornò a scendere i gradini, raggiungendo la porta e chiudendola dall’interno con il paletto. Un ennesimo scrupolo a garanzia della sua sicurezza personale, evidentemente. Giunio non poté non sorridere al pensiero che, così facendo, il senatore aveva probabilmente firmato la propria condanna.

La cupola del sudatorio rifletteva il calore, riempiendo il vasto ambiente di una fitta foschia. Fu con la sua protezione che Giunio andò furtivamente a mettersi alle spalle dei suoi due mortali nemici, aggirandoli e piazzandosi tra loro e la porta chiusa. I due non si accorsero di lui e continuarono la loro animata discussione.

«Non credo che sia stato un rapinatore a uccidere Dario», stava dicendo Sestilio.

«Il colpo di spada gli ha troncato la testa quasi di netto», convenne Menenio. «Dario è sempre stato uno dei miei uomini più scaltri e capaci, non era uno sprovveduto e sapeva difendersi. L’omicida deve essere per forza un uomo molto abile con le armi.»

I due si scambiarono uno sguardo preoccupato, quasi avessero timore a pronunziare il nome che avevano entrambi sulla punta della lingua.

«Dopo tanto tempo?» mormorò Sestilio. «Giunio?»

Il senatore lo guardò per un istante, annuendo, ma non riuscì a pronunciare parola.

«Sì», esclamò una voce alle loro spalle, «sono stato io a punire quel traditore, e la stessa sorte è riservata a voi, infami!»

E, così detto, Giunio estrasse le armi dal loro nascondiglio, godendosi l’espressione di terrore dipinta sui loro volti.

«Non intenderai uccidere due uomini disarmati?» chiese Sestilio, tremebondo.

«Non farei altro che mettermi al vostro livello», replicò lui, «con la differenza che non sarei mai capace di accanirmi contro donne inermi come fate voi, vigliacchi. Ma non voglio uccidervi a sangue freddo, non ne sarei mai capace. Faticavo a farlo anche in quel Circo a cui mi avete condannato con le vostre indegne trame.»

E, così detto, lanciò la spada e un giavellotto nella loro direzione, tenendo nelle mani il più leggero dei suoi dardi.

Menenio si precipitò sulla spada. Il suo corpo nudo, imperlato di sudore, si erse impugnandola. Il viso già deforme era torto in una malvagia espressione mista di terrore e odio.

Accecato com’era dal desiderio di vendetta, Giunio puntò immediatamente su di lui, senza curarsi delle mosse di Sestilio. Il giavellotto scagliatogli contro dal suo ex collega tribuno apparve improvviso tra le nubi di vapore. Soltanto grazie alla sua prontezza di riflessi riuscì a evitare che la punta acuminata gli si conficcasse in pieno petto. Fu colpito di striscio.

Valutò con un’occhiata rapida la gravità della ferita alla spalla sinistra: non era preoccupante, ma l’indolenzimento gli aveva fatto perdere quasi completamente l’uso del braccio. Menenio intanto si stava facendo avanti, mulinando la spada. Doveva prendere tempo e non ingaggiare il duello prima di avere recuperato l’uso del braccio. Aggirò destramente l’aggressore, fino a quando il suo corpo non si frappose tra lui e Sestilio. In quel preciso istante caricò il braccio destro con tutta la rabbia che aveva in corpo.

Il dardo partì scagliato dalla forza stessa del furore. Vide la punta di ferro centrare in pieno petto Menenio, che strabuzzò gli occhi, piegandosi sui ginocchi. Sestilio era esattamente alle sue spalle, quasi volesse farsi scudo dell’uomo che gli aveva impartito tanti infami ordini. I loro corpi nudi erano quasi a contatto. La punta del giavellotto uscì tra le scapole del senatore e concluse la sua corsa nel costato di Sestilio.

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