Quando giunsi al moletto di legno il motoscafo era già là: con ogni probabilità, a un osservatore attento non era passata inosservata l’assenza della barca a remi.
Corsi a perdifiato. Quando giunsi nei pressi della radura mi fermai e, non senza difficoltà, orinai contro a un cespuglio. Raggiunta l’altana trovai Ceausescu ad attendermi. Aveva ancora in mano il fucile automatico. Accanto a lui si trovavano la moglie Elena e il guardacaccia.
«Le era stato raccomandato di non abbandonare la sua postazione, signor Breil», disse Ceausescu con aria severa.
«Ho avuto un bisogno impellente, conducator », risposi.
«Talmente impellente da esser costretto a prendere il largo, signor Breil?» Lo sguardo gelido di Elena Petrescu riuscì, ancora una volta, a mettermi a disagio.
«Preso il largo?» dissi incredulo. «Non capisco che cosa vuole dire, Elena. Non vorrei sembrare irriverente, ma mi doleva la vescica e ho orinato tra quei cespugli. Se volete potete verificare.»
«È quello che faremo», concluse Elena, gli occhi ridotti a fessure colme di odio.
Durante il viaggio di ritorno, nessuno aprì bocca: l’atmosfera a bordo dell’elicottero che ci riportava a Bucarest era glaciale.
Continuavo a ripensare a ciò che avevo visto: ogni particolare della vicenda mi era ormai chiaro. Te ne parlerò, ma ora non ne ho il tempo.
Una volta a casa avevo riletto con attenzione gli appunti da me raccolti durante la conversazione con Sciarra della Volta. Ho deciso che non abbandonerò mai questi due quaderni: qualunque cosa dovesse succedermi, se dovessero far parte dei miei effetti personali ci saranno maggiori probabilità che ti vengano consegnati, Oswald.
Sto combattendo contro forze capaci di sovrastare chiunque. Spero che un’attenta lettura del Pentateuco e un comportamento conforme ai doveri religiosi di un buon ebreo e alla legge mi siano d’aiuto nella sgradevole situazione in cui mi trovo.
Sara Terracini, profondamente scossa, trascrisse a fatica le ultime parole del diario. Nel gennaio 1968 Asher Breil e sua moglie Aliah erano stati travolti e uccisi da un camion su una strada alla periferia di Bucarest. Due nuove vittime di un pirata della strada, avevano titolato i giornali. Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena si erano detti molto addolorati per la scomparsa di un ottimo uomo d’affari e di due cari amici.
Nessuno, tra i ranghi del Mossad, aveva creduto nemmeno per un attimo che quella fosse stata una morte accidentale.
Cassandra Ziegler lesse ad alta voce il testo della nuova lettera del Giusto, quindi i suoi occhi azzurri si posarono su quelli di Oswald. La domanda che si ponevano era la stessa per tutti: «Che fare?» ma soprattutto « Come riuscire a farlo?»
«Mi stia ad ascoltare, Deuville», disse Oswald, dopo averci pensato un istante. «Se la battaglia deve essere persa, almeno cerchiamo di ottenere l’onore delle armi.»
«In che senso, dottor Breil?»
«Non credo che lei, direttore, passerà indenne attraverso la bufera che si abbatterà sul Bureau nel corso dei prossimi giorni. Se le mie convinzioni sono esatte abbiamo qualche ora di vantaggio sulla concorrenza per riscattare il buon nome di Deidra Blasey e, oltre al suo, salvare anche il nostro nobilissimo didietro.»
«Ci dica quali sono le sue idee e come ha intenzione di muoversi, Oswald.»
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
La piacevole chiacchierata si era protratta per tutto il tempo della discesa dai sentieri tra i boschi verso la cittadina dolomitica.
Lì giunti sedettero ancora una volta sulla terrazza all’aperto dell’hotel della Posta e il generale Sciarra si apprestò a concludere la sua storia che si era sviluppata attraverso quasi mezzo secolo…
«Una nuova guerra passò sopra le nostre teste. La mutilazione da me subita durante il primo conflitto mi aveva esonerato dalle azioni al fronte. Tuttavia ero molto impegnato. Ricordo quando Kimberly e io riportammo con noi Minhea Petru. Il fatto di non aver avuto figli ci permise di dedicare a lui tutto il nostro tempo e la nostra assistenza: il giovane e coraggioso nobile rumeno aveva bisogno di cure pressoché costanti.
«Le cose erano molto cambiate dopo il nuovo conflitto. La guerra tra i paesi del blocco occidentale e quelli al di là della cortina di ferro era finita solo in apparenza, ora se ne combatteva una che, in qualche modo, ricordava quella che avevamo sostenuto nelle trincee. Una guerra fatta di piccoli passi, informazioni, spionaggio. Ma era pressoché impossibile ottenere vittorie decisive con le armi in mano, perché si sarebbe corso il rischio di distruggere l’intero pianeta. Bisognava conquistare il favore dei popoli e soprattutto i loro sistemi economici. In quella direzione si stavano muovendo i potenti della terra.»
Stati Uniti d’America, 1941
Béla Lugosi non rimase inattivo di fronte al nuovo conflitto: da un divo di Hollywood ci si aspettava che prendesse posizione contro le crudeltà commesse dal nemico. E un attore, giunto a Hollywood dalla lontana Europa, aveva una ragione in più per rendersi utile a quell’America alla quale doveva tanto.
Gli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale erano stati molto impegnativi per l’ungherese. Nel frattempo la sua favolosa ricchezza era diventata materia di leggende quanto, e forse più, i suoi lugubri spettacoli.
Spinto da un lodevole spirito patriottico, e dalla lungimiranza del suo agente, Béla fu tra i fondatori dell’Hungarian Anti-Fascist Committee. Per raccogliere fondi organizzò una tournée in giro per il paese. I proventi degli spettacoli venivano destinati a sostenere la resistenza in Europa e a soccorrere le vittime del nazismo.
I coniugi Bàlaj avevano messo in programma la nascita di un figlio, non tanto per un reale desiderio di procreazione quanto per dare un aspetto di normalità alla loro esistenza in America. I due agenti segreti avevano giurato fedeltà eterna alla causa comunista. Ancora prima di giungere negli Stati Uniti e di avviare una soddisfacente attività commerciale che fungesse da copertura, si erano legati ai servizi segreti della Russia comunista. Con il crescere del numero dei paesi favorevoli alla politica sovietica, ottenuto il benestare del KGB, i Bàlaj avevano iniziato a offrire i propri servigi anche ad alcuni paesi del blocco.
Ci pensava il servizio di spionaggio russo a smistare le notizie che riteneva degne di nota. Inutile dire che, fra le tante informazioni che i Bàlaj passavano all’URSS, erano poche quelle che avrebbero abbandonato gli archivi segreti del palazzo della Lubjanka, sede del KGB.
In tale contesto, Béla Blasko era una sorta di sorvegliato speciale e la sua scheda era gestita da un’altra organizzazione, il Komitet Gosudarstvennoi Bezopasnosti, il comitato per la sicurezza dello Stato sovietico. L’archivio dei Bàlaj era costituito da oltre ventimila soggetti schedati con meticolosa precisione. E tra questi figuravano persone influenti nella politica e nell’industria americana.
Quando si era presentata dinanzi a Béla Lugosi, con la scusa di chiedergli un autografo, Bryga Bàlaj era al settimo mese di gravidanza. Era l’estate del 1941.
«Sono davvero emozionata di esserle vicino, signor Lugosi», aveva detto in magiaro la signora Bàlaj. «Mi userebbe la gentilezza di farmi un autografo?»
Teofil si era tenuto in disparte: sebbene fosse pressoché impossibile che Blasko lo riconoscesse, pensava fosse meglio essere prudenti. Il vederli insieme avrebbe potuto risvegUare nell’attore ricordi lontani.
«Ma certo, signora», aveva risposto Lugosi, quindi, indicando la pancia della donna, «e, se mi permette vorrei dedicare il mio autografo a questo nascituro con sangue ungherese. Come si chiamerà il bambino che verrà al mondo in terra d’America?»
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