Cesare aprì e gettò un’occhiata circospetta sulla strada, quasi deserta a quell’ora della sera.
«Venite dentro, signor principe», disse l’italiano, guidando Minhea attraverso ambienti polverosi e disabitati da anni.
Quindi il ragazzo bussò a sua volta a un’altra porta interna, battendo con un ritmo che sembrava un codice di riconoscimento.
Un uomo dalla carnagione scura li accolse e si trovarono in un altro mondo: lampadari a goccia scendevano dal soffitto e illuminavano l’ampio salone. Il bancone della mescita era in legno scuro e il piano era ricoperto di marmo bianco. Dietro al banco stavano allineate decine di bottiglie, anonime solo per coloro che non conoscevano il forte piacere dell’alcol nelle vene.
Il bar clandestino era ancora chiuso ma avrebbe aperto da lì a poco: gli avventori sarebbero arrivati alla spicciolata, passando attraverso il negozio dismesso, e si sarebbero attardati, appoggiati al bancone, a degustare il nettare proibito.
Minhea non condannava — e non sarebbe stato possibile — i suoi compagni di sventura. Non riusciva però a condividere il loro modo di esibire la dissolutezza. Forse era il rigore della sua educazione aristocratica che spingeva il rumeno a non indulgere in pubblico al suo vergognoso vizio. Preferiva restare solo a pregustare il momento in cui i dubbi e le sofferenze della sua esistenza scomparivano in un attimo per lasciare il posto all’oblio.
La lingua italiana con la quale Cesare si rivolgeva a Petru risvegliò i ricordi di quel signore aristocratico: erano trascorsi tredici anni dalla fine della guerra e il mondo stava vivendo in maniera traumatica gli strascichi di una crisi economica senza precedenti.
Uscì di nuovo in strada, costeggiò alcuni isolati della Cinquantatreesima sino a Broadway.
Notò il cartellone fuori dal cinema quasi per caso. Il nome dell’antico antenato non fu la sola cosa ad attirare la sua attenzione. Minhea osservò ancora una volta il manifesto su cui spiccava il ritratto del protagonista. Scrollò la testa, come se cercasse di allontanare le allucinazioni di cui spesso era preda. No, non aveva ancora bevuto, fatta eccezione per il bicchiere colmo che gli avevano offerto gli italiani della distilleria. Non aveva dubbi: l’attore che interpretava il ruolo di Vlad Dracula si faceva chiamare Béla Lugosi, ma altri non era se non Béla Blasko, l’ufficiale ungherese a cui stava dando la caccia da oltre un decennio.
«Faccia attenzione, Asher», disse Sciarra. «Il treno per Calalzo transita di rado, ma comunque transita. Stia attento a camminare lungo la strada ferrata.»
«Non si preoccupi, generale. L’unico pericolo che corro è quello di essere tanto trascinato dagli avvenimenti del suo racconto da non accorgermi dell’arrivo del treno.» Asher Breil sorrise. «Può continuare, generale, la prego?»
«Dove eravamo rimasti?»
«Al cartellone del film.»
«Già… le coincidenze… Un uomo trascorre la vita con l’angoscia di non poter compiere la missione che si è prefissato, per poi accorgersi che la persona che cerca è sotto ai suoi occhi… o meglio, sotto agli occhi di tutti.»
Tenendo ben stretta la borsa, Minhea si mise in coda per acquistare il biglietto del successo cinematografico del momento: sembrava che la gente fosse in preda alla frenesia di assistere alle gesta del famoso vampiro.
Ma non furono le pose terrificanti di Béla Blasko con le mani protese e le dita piegate ad artiglio a far trasalire Minhea Petru sulla sedia: aveva finalmente trovato il suo acerrimo nemico e ora doveva solo escogitare il sistema per recuperare il tesoro della sua famiglia.
Minhea uscì dal cinema due ore più tardi. Si incanalò nel fiume di persone che stavano abbandonando la sala. Probabilmente, quando fu sul marciapiede, inciampò tra la folla. La borsa di pelle cadde a terra ai piedi di un poliziotto che sorvegliava il traffico. L’agente raccolse la borsa con gesto cortese, ma subito l’espressione gentile si tramutò in uno sguardo indagatore. L’odore del whisky aveva raggiunto le narici del poliziotto.
Poco più tardi Minhea Petru sedeva su una panca del distretto di polizia di Manhattan.
«Ve lo ripeto, signor Petru», disse il detective puntandogli contro un dito minaccioso, «se ci dite dove avete preso quelle bottiglie, vi lasciamo andare senza procedere nei vostri confronti e vi assicuriamo che nessuno fuori di qui verrà a conoscenza di questo episodio. Avete capito?»
«Vi ho detto che ho trovato la borsa di pelle dentro al cinema», mentì il rumeno.
«Non penserete davvero che io ci creda! Ve lo chiedo per un’ultima volta. Dove avete trovato quelle bottiglie?»
«Dal carcere Minhea mi aveva scritto. Poi è seguito un lungo silenzio, che soltanto il tempo mi ha spiegato.» Sciarra fece una breve pausa, quindi riprese il racconto.
Dieci giorni più tardi Minhea Petru usciva dalla cella di sicurezza del distretto di polizia: per tirarlo fuori, dietro il pagamento di una consistente cauzione, si erano disturbati i più quotati e costosi avvocati di New York.
«Vi accompagno in albergo, signor principe? La mia auto è proprio qui sotto», gli aveva chiesto il suo legale, mentre firmava le carte per il rilascio.
«Non preoccupatevi, avvocato, prenderò un taxi», aveva risposto Minhea con modi sicuri che mal si addicevano al suo aspetto trasandato.
«Mi permetto di insistere. Credo voi abbiate bisogno di abiti puliti e di una bella doccia, eccellenza.»
«Non insistete, avvocato, vi prego. Vi ringrazio davvero molto, ma ho bisogno di stare un po’ da solo. Vi ripeto, prenderò un taxi per andare al Plaza.»
Quando Minhea salì sull’auto pubblica, non chiese di essere portato all’angolo tra la Cinquantanovesima e la Quinta, dove si trovava il suo albergo, ma sulla Nona, nei pressi di una vecchia drogheria ormai chiusa da tempo.
Minhea era seduto al bancone da qualche ora, ormai. Gli abiti lisi lo facevano sembrare uno dei tanti disperati che si aggiravano come spettri nella città attanagliata dalla crisi economica.
«Un altro, giuro che è l’ultimo», aveva detto Minhea protendendo il bicchiere verso il barman. Data l’ora, i camerieri si apprestavano a chiudere il locale clandestino.
L’uomo dall’altra parte del bancone aveva obbedito.
Minhea era uscito dal bar quando il sole aveva ormai allontanato l’oscurità della notte. Il nobile rumeno barcollava vistosamente.
Si diresse verso Central Park: forse sarebbe riuscito a fermare uno dei rari taxi che a quell’ora giravano per la città. Ma quando mise mano alla tasca interna della giacca, si accorse che non vi aveva riposto il portafogli dopo aver pagato le consumazioni del bar: poco male, i contanti in suo possesso erano stati spesi al bancone e nessuno si sarebbe interessato ai documenti di un cittadino dell’Est europeo.
Le poche persone che incontrava, quando lo vedevano, cambiavano percorso. Di taxi nemmeno l’ombra.
Attraversò la Cinquantottesima con l’attenzione che può prestare un ubriaco all’alba in una strada deserta.
Il camion del latte avanzava a velocità sostenuta. Il giovane autista era in ritardo sulle consegne. Troppo tardi si accorse di quell’uomo sbucato all’improvviso.
L’ultima cosa che Minhea Petra disse, prima di perdere i sensi, fu: «L’anello! Devo riportare a casa l’anello», quindi chiuse gli occhi, mentre un rivolo di sangue gli usciva dall’orecchio.
«Si tratta di un grave trauma cranico», disse poco dopo un medico dell’ospedale dove avevano portato Petra. «Quest’uomo è in grave pericolo di vita. Siamo riusciti ad avvertire la sua famiglia, infermiera?»
«No, dottore. L’uomo non aveva documenti con sé. Dallo stato degli abiti che indossava credo si tratti di uno dei tanti senzatetto di cui pullula New York. Nessuno sul luogo dell’incidente lo conosceva.»
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