Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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Dagli appunti raccolti da Asher Breil

a Cortina d’Ampezzo, 1967

Minhea Petru era seduto su un divano nel salotto della lussuosa casa abitata dai coniugi Sciarra. Il palazzo sorgeva nel quartiere di Carignano, una zona molto elegante della città poco sopra la foce del torrente Bisagno.

Il nobile rumeno aveva risposto immediatamente al suo ex superiore e aveva deciso di partire per l’America non appena sistemati i suoi affari. L’opportunità si era presentata quando ormai erano trascorsi quasi nove mesi da che Blasko era transitato per il porto ligure.

Nel frattempo Sciarra aveva cercato di attingere informazioni attraverso la compagnia marittima, ma tutti i membri dell’equipaggio della Re Vittorio avevano perso di vista Arisztid Olt, l’ungherese, appena questi era sbarcato in America.

In attesa di imbarcarsi da Genova i due amici e compagni d’armi avevano approfittato per trascorrere qualche giorno insieme: Petru era rimasto ospite di Alberto e Kimberly e il tempo era trascorso piacevolmente tra chiacchiere e ricordi, ma adesso era giunta la data della partenza.

«Non posso avere l’assoluta certezza che si trattasse di Blasko», stava dicendo Sciarra rivolto al suo ospite. «Non vorrei che, una volta in America, tu scoprissi che si trattava di un sosia e mi lanciassi improperi pensando al viaggio a vuoto che ti ho fatto intraprendere, Minhea.»

«È da tempo che voglio visitare quel paese, Alberto. Nella peggiore delle ipotesi la tua segnalazione avrà avuto il merito di avermi convinto a fare un viaggio che sognavo da sempre.»

Minhea Petru osservava il solerte addetto all’immigrazione con aria sconsolata.

«No, signore. Da quella nave non è sbarcato nessun ungherese che corrisponde al nome di Olt, né a quello di Blasko. Non ci risulta», gli rispose il funzionario di dogana, scorrendo un voluminoso registro scritto in bella calligrafia. «Gli unici ungheresi che sono sbarcati in territorio americano sono i coniugi Bàlaj, che risiedono qui a New Orleans. Per essere più precisi, solo l’uomo è ungherese e ha sposato una rumena.»

Petru annotò l’indirizzo della coppia e ringraziò l’impiegato per la sua gentile disponibilità.

Qualche ora più tardi stava verificando l’indirizzo di cui era entrato in possesso.

Il negozio di generi alimentari si trovava al piano terreno di una casa in stile vittoriano, situata in St. Charles Avenue, nel quartiere francese di New Orleans. Teofil Bàlaj accolse Petru con la distaccata superbia con cui gli ungheresi erano soliti trattare i confinanti rumeni.

Ma, non appena Minhea gli rivelò il motivo della sua visita, Bàlaj si illuminò: «Certo, mi ricordo bene di quel mio connazionale dai modi rudi e maleducati. L’ho anche denunciato al comandante per avermi strattonato nel corso di una situazione di emergenza. Ti ricordi, cara?» Teofil si era rivolto alla moglie, una petulante signora dai capelli tinti di biondo che si atteggiava ad americana, cercando di dimenticare che Zanka, un paesino sul lago Balaton, in Ungheria, aveva dato i natali al marito e che lei era nata in un povero quartiere di Bucarest.

«Sì, certo, Teofil. Poche sera fa, nel riguardare le istantanee che ci ha scattato il fotografo di bordo, abbiamo notato che quel losco figuro era rimasto immortalato sullo sfondo di una fotografia.»

«Potrei vederla?» chiese Minhea.

Qualche minuto più tardi si allontanava da casa Bàlaj con una nuova certezza riposta tra due fogli di carta velina: la pista che stava seguendo era quella giusta e il ritaglio di fotografia che aveva acquistato a caro prezzo dal commerciante ungherese ne era la prova.

50

Valacchia, 1431

Vladislav II si inginocchiò dinanzi all’imperatore del Sacro Romano Impero.

Sigismondo alzò la spada dall’elsa d’oro, a forma di drago. La luce, nella stanza segreta del castello di Norimberga, era fioca al punto di celare i volti della trentina di cavalieri presenti alla cerimonia. All’esterno imperversava una tormenta di neve: il mese di febbraio, appena cominciato, si annunciava gelido.

«Sei pronto, Vladislav di Valacchia, a lottare per respingere gli infedeli e per fare trionfare la cristianità?» chiese l’imperatore Sigismondo.

«Sono pronto, maestà», rispose il voivoda, chinando il capo in segno di rispetto. La voce di Vlad si levò sicura: «Giuro di servire la cristianità anche a costo della morte. Giuro che con tutte le mie forze ricaccerò gli infedeli negli inferi dai quali provengono, perché l’unico Dio, unico e misericordioso, trionfi. Giuro che sarò fedele al vincolo indissolubile che mi lega ai cavalieri del Drago».

La spada dell’imperatore si posò dapprima sulla spalla destra, quindi sulla sinistra.

«Ti nomino cavaliere, Vladislav di Valacchia. Che Dio sia con te.» Così dicendo Sigismondo consegnò al voivoda un anello con l’incisione di un drago alato.

Vlad lo inserì sul dito medio, accanto a un altro gioiello che portava all’indice: un antico anello di oro rosso che recava una stella a sei punte cesellata sulla corona.

La cerimonia terminò di lì a poco.

Più tardi, seduti dinanzi a una tavola imbandita, fu Sigismondo a parlare, indicando l’Anello dei Re. «Che cosa rappresenta quel simbolo, Vlad?»

«È lo stemma del Re Salomone: è un oggetto che nella mia famiglia si tramanda di padre in figlio.»

«Sembra molto antico. A ogni modo saprai a chi darlo, Vlad: mi risulta che tua moglie stia aspettando un bambino.»

«Vedo che la vita dei vostri fedeli sudditi vi sta a cuore, maestà. Sì, è vero: tra poco verrà al mondo il mio secondogenito.»

Dalle parole del voivoda s’intuiva che avrebbe riposto molte speranze su quel nuovo nato: il suo primogenito Mircea si avviava a diventare un rude combattente, ma poco interessato alle sottili arguzie della politica. Al secondogenito Vlad avrebbe dato il suo stesso nome e, anche se lo scettro del potere sarebbe stato raccolto, per diritto di nascita, da Mircea, Vlad aveva deciso che al suo secondo figlio avrebbe impartito un’educazione rigorosa e completa. Voleva che diventasse insuperabile nell’arte della diplomazia, anche se sapeva bene che molto difficilmente avrebbe infilato al dito l’Anello dei Re.

Quando Vlad II fece ritorno al castello di Sighisoara, venne festeggiato per giorni dai sudditi entusiasti.

Il motivo ufficiale dei festeggiamenti era la nomina di Vlad a principe di Valacchia. Il Cavalierato del Drago era un patto di fedeltà segreto tra il voivoda e Sigismondo di Lussemburgo, l’imperatore che da sempre aveva sostenuto il neoprincipe.

Vlad volle riunire all’interno del castello tutte le quattordici corporazioni che avevano contribuito alla sua costruzione: ognuna delle torri merlate riportava il nome di una confederazione di commercianti.

Sighisoara era un centro commerciale molto attivo e una via di congiunzione tra la Germania occidentale e Costantinopoli e tra le regioni baltiche e il resto dell’Europa. Buona parte dei suoi più ricchi abitanti era rappresentata da mercanti tedeschi, trasferitisi lì nel corso del tempo perché attirati dalla sua importante funzione commerciale.

Fu in quel 1431 che la principessa Cnejana, moglie di Vlad II, diede alla luce il bambino che portava in grembo.

La nomina di Vlad a principe aveva inevitabilmente provocato dissapori profondi: Alexandru Aldea, fratellastro del nuovo voivoda, era stato scalzato dal trono che occupava come reggente.

La nobile famiglia dei Basarab si schierò in parte con l’uno e in parte con l’altro dei pretendenti e ne nacque una lunga lotta segnata da una scia di sangue.

Furono necessari cinque anni perché quello che tutti chiamavano con un termine dialettale, Dracul, nome che poteva avere il duplice significato di drago oppure di diavolo, riuscisse ad avere la meglio sul fratellastro.

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