L’America, dove l’industria cinematografica era seconda soltanto a quella automobilistica, forse gli avrebbe aperto le porte del successo.
Blasko strinse tra le dita l’anello d’oro, convinto che l’antico talismano gli avrebbe infuso forza ed energia.
Aveva letto e riletto la storia scritta sul libriccino sottratto all’ufficiale nemico: in esso erano state annotate con precisione e dovizia di particolari le vicende di tutti i possessori del gioiello, che erano appartenuti alla nobile famiglia rumena, e vi si faceva spesso riferimento al potere di quell’oggetto magico.
L’ungherese guardò ancora una volta il sigillo prima di riporlo nel suo scrigno e seguì con i polpastrelli il rilievo della stella a sei punte sulla sommità della corona.
E sorrise pensando che, all’interno del cofanetto, c’erano gemme in grado di assicurare un’esistenza più che agiata a lui e alla sua progenie. Peccato che, al momento, si trovasse in una cabina spoglia, su un bastimento in rotta per l’America, con le mani sporche di carbone. Ma Blasko non aveva nessuna intenzione di lasciarsi scoraggiare: il suo autocontrollo, la forza di volontà e la capacità di arrangiarsi avrebbero costituito la solida base sulla quale si sarebbe guadagnato, ormai trentanovenne, il lasciapassare verso la celebrità.
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
«Vuole che ci avventuriamo per quel sentiero più ripido, o preferisce un itinerario meno difficile, signor Breil?» chiese Sciarra indicando un viottolo che scendeva in direzione di Cortina.
«Quello che risulta più agevole per lei, generale», rispose Breil, sempre più meravigliato per la resistenza dell’anziano compagno di escursione.
«Non si deve stupire che io, nonostante i miei ottant’anni, sia ancora in grado di affrontare questi percorsi di montagna. Sono un alpino, anche se un po’… stagionato. Non se lo scordi. A ogni modo, passiamo per la via meno impegnativa, così avremo modo di continuare la nostra chiacchierata. Non la sto annoiando, vero?»
Dopo alcuni passi Sciarra riprese il suo racconto, mentre Breil tentava di prendere nota di ogni particolare, che poi avrebbe trascritto sui suoi appunti.
«Molte delle cose che le sto raccontando sono tratte dall’epistolario intercorso negli anni tra me e Minhea Petru…»
Minhea Petru posò la lettera sullo scrittoio. Dalla fine della guerra aveva dedicato tutto il suo tempo a dare la caccia all’ufficiale ungherese e adesso il suo amico Sciarra gli aveva scritto che Blasko era appena partito da Genova alla volta dell’America.
Recuperare l’anello era diventato per Minhea una specie di ossessione. Aveva ricostruito la vita di Blasko fino al momento della fine della guerra, quindi l’ex ufficiale ungherese del 43° reggimento di fanteria si era praticamente volatilizzato. Minhea sapeva che nello scrigno sottrattogli da Blasko nel castello di Sighisoara si trovava una fortuna in pietre preziose. «Il lasciapassare per la vita», come lo chiamavano dalla notte dei tempi nella sua famiglia. Ma temeva che l’ungherese avesse ormai dilapidato tutto. In realtà Minhea non sapeva nulla di preciso: Blasko doveva essersi mosso con molta accortezza se era riuscito a non cadere nelle maglie della rete che Petru aveva teso per lui. Sciarra gli aveva scritto che il loro uomo ora si faceva chiamare Arisztid Olt. L’amico italiano attendeva il ritorno della nave nel porto di Genova: se Béla Blasko faceva ancora parte dell’equipaggio, si sarebbe trovato a bordo.
Purtroppo però le ottimistiche previsioni di Sciarra si erano rivelate infondate: da un contatto radio avuto con il comandante, Alberto aveva saputo che l’aiuto macchinista ungherese era sbarcato non appena la nave aveva raggiunto New Orleans.
Stati Uniti d’America, gennaio 1922
Nel ventre della nave il beccheggio era quasi insopportabile e i macchinisti erano costretti a virtuosismi da equilibristi.
«Questa maledetta tempesta sta davvero cercando di portarci a fondo», aveva detto a Blasko un austriaco che divideva con lui il turno alla caldaia.
L’ungherese gli aveva risposto con un cenno della testa, mentre osservava preoccupato lo strumento che indicava il grado di inclinazione dello scafo: la nave stava oltrepassando la soglia di sicurezza. Anche il direttore di macchina rimase paralizzato nel vedere la biglia di legno rosso correre all’interno del tubo trasparente e raggiungere il punto prossimo al limite. Superatolo, il piroscafo si sarebbe piegato su un lato e forse capovolto.
Tutto intorno ogni oggetto che non fosse stato assicurato veniva sbalzato da una paratia all’altra con violenza.
«Buffa la vita», si disse Blasko, «morirò dentro a questa scatola di ferro, con nello zaino una fortuna in pietre preziose ancora intatta. Avrei potuto vivere come un nababbo, e invece sto per venire travolto dalle onde, dopo essermi inutilmente dato da fare in questo girone infernale.»
Alcuni marinai si erano messi a pregare: il tempo sembrava essersi fermato. La nave era rimasta sbandata a lungo, poi finalmente parve cominciare a raddrizzarsi, ma rimase ingovernabile.
Il rumore sordo dell’urto fu percepito nitidamente nella sala macchine. Il piroscafo ebbe un sussulto, quindi sfilò sugli scogli mentre un grido di dolore si levava dalle lamiere ferite.
La voce del comandante, qualche istante più tardi, gracchiò nell’interfono il comando di stato di preallarme per tutto il personale: soltanto cinque persone sarebbero rimaste alle macchine e Blasko non faceva parte di queste. Tutti i membri dell’equipaggio avrebbero dovuto presidiare il posto loro assegnato in caso di emergenza e sovrintendere alle eventuali operazioni di abbandono della nave.
La postazione lance numero sei, quella destinata alla supervisione di Blasko, si trovava al centro del sesto e più alto ponte del bastimento.
Ogni passeggero doveva raggiungere il punto di raccolta che gli era stato indicato al momento dell’imbarco.
Blasko si trovò di fronte il suo connazionale e la moglie che, tremando come foglie, affrontavano il freddo della notte, avvolti in preziose vestaglie di seta.
«Se dovremo abbandonare la nave fatemi imbarcare tra i primi nella scialuppa, assieme a mia moglie. Saprò come ricompensarvi», gli sibilò l’ungherese in un orecchio.
Blasko non gli rispose neppure, allontanandolo con una energica spinta. Doveva fare di tutto per mantenere la calma tra i viaggiatori: sapeva bene che il panico, una volta divampato, era tra le più ricorrenti cause di morte in caso di naufragio.
Per fortuna l’ordine di evacuare non venne impartito: il comandante e gli ufficiali, dopo aver visionato centimetro per centimetro il bastimento, avevano deciso che non c’erano pericoli imminenti. Le rocce affioranti in cui erano incappati erano state investite solo di striscio e non avevano aperto falle nello scafo.
La nave avrebbe potuto continuare la sua crociera verso l’America.
Fu il giorno prima dell’arrivo che il comandante mandò a chiamare Blasko.
«Voi siete stato convocato, aiuto macchinista Olt, perché un passeggero, vostro connazionale, ha sporto denuncia in merito a un comportamento inqualificabile da voi tenuto nel corso della recente emergenza.
«Per vostra fortuna, il vostro diretto superiore ha speso per voi parole di elogio», aggiunse il comandante indicando il direttore di macchina seduto accanto a sé. «Ho quindi deciso di non consegnarvi alle autorità italiane al nostro rientro, rientro che voi non effettuerete su questa nave, dal momento che sbarcherete non appena raggiungeremo il porto di New Orleans.»
Blasko non rispose: sarebbe stato inutile tentare di discolparsi, e inoltre lo sbarco rientrava nei suoi piani.
Blasko era sceso a terra confidando negli scarsi controlli che le autorità americane effettuavano sui membri dell’equipaggio delle navi da crociera. Una volta superati gli sbarramenti doganali, si era allontanato dal porto coi suoi pochi panni e il suo tesoro in spalla. A passi veloci si era avviato verso il nuovo mondo che lo stava aspettando, e intanto pensava a uno pseudonimo con il quale, ne era sicuro, avrebbe calcato i palcoscenici.
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